“SU UN ALTRO PIANETA” DI AMEDEO BALBI. RECENSIONE LIBRI.

di Nicola Ruffo

 

La nostra sopravvivenza come specie è legata, nel lungo termine, alla possibilità di trovare sostituti alla Terra, o faremmo bene a pensare ad altre strategie?

Ogni nuovo lavoro di Amedeo Balbi è sempre un lieto evento. I suoi testi di divulgazione scientifica sono boccate di ossigeno nel panorama italiano, dove la Musa Urania non sempre gode del meritato riconoscimento.

La sua ultima fatica, Su un altro pianeta, è un’accurata analisi di come e perché dovremmo (o non dovremmo) perseguire la via della colonizzazione di altri mondi fuori dalla Terra.

Alle argomentazioni prettamente tecniche si aggiungono riflessioni personali dell’autore, il tutto con la consueta competenza in materia che contraddistingue gli scritti dell’astrofisico.

Vanno segnalate due caratteristiche di Balbi.

La prima è il suo usuale stile: lo scienziato romano ha il pregio di rendere la lettura gradevole e accessibile a chiunque evitando di spaventare il pubblico con formule matematiche o tecnicismi per addetti ai lavori. Sa divulgare mantenendo l’autorevolezza dell’argomento senza banalizzarlo ma vivacizzandolo con punte di ironia qua e là.

La seconda è un tratto specifico di Balbi, e in “Su un altro pianeta” emerge con forza: il realismo pratico. Il titolo del libro induce facilmente a fantasticare voli pindarici verso orizzonti lontani, viaggi affascinanti su mondi sconosciuti, frontiere cosmiche in attesa di essere conquistate, incontri con civiltà aliene. In definitiva, un moto dalla Terra verso lo spazio, “fino ad arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima”, citando (come fa lo stesso Balbi) la famosa frase di apertura della serie Star Trek.

Tutto il contrario! Balbi ci tiene con i piedi per terra. E ben saldi, oltre che saldati al suolo.

Forse questo potrebbe deludere quanti sognavano – seppur con la fantasia – di camminare su altri corpi celesti, ma allo stato attuale delle cose non possiamo sperare in scenari alla Star Wars. E molto probabilmente non lo potremo mai.

Anche solo per inviare un equipaggio su Marte, il pianeta più prossimo a noi e il più promettente (teoricamente) per uno sbarco con astronauti, le difficoltà e i costi da sostenere per l’impresa sarebbero enormi, per nulla affrontabili nel breve periodo.

Ai profeti della colonizzazione extraterrestre – spesso per motivi d’interesse, come Elon Musk – che sostengono le loro tesi a suon di massime e frasi fatte, Balbi risponde saggiamente: “Anche le citazioni motivazionali devono essere messe alla prova dei fatti”.

Balbi fa un’interessante distinzione riguardo alle criticità nei progetti di colonizzazione di altri mondi. Un conto sono i limiti delle conoscenze tecnico scientifiche attuali, per i quali si può confidare di superarli in un lontano (molto lontano) futuro grazie alla continua ricerca. Su questo però ammette che: “oggi è sempre più difficile sposare una visione di progresso illimitato”.

Un altro conto invece sono le ferree leggi di natura, che non si possono modificare e che pongono paletti precisi all’agire umano; uno per tutti la velocità della luce: non solo non è superabile, ma non è nemmeno possibile raggiungerla da nessun veicolo.

E questo costituisce un ostacolo insormontabile all’esplorazione spaziale a distanze interstellari.

Il punto fondamentale però è: per quale motivo dovremmo andare a colonizzare altri mondi? C’è una ragione precisa? La semplice fascinazione per l’esotico non basta.

Se la questione è la nostra conservazione in previsione di possibili catastrofi come le pandemie, il deterioramento dell’ambiente, le carestie, allora non è meglio investire le risorse per risolvere le priorità, invece di fuggire con nessuna certezza di salvezza una volta abbandonata la Terra?

Come dice il noto adagio, non è scappando che si risolvono i problemi.

Balbi dunque rovescia la prospettiva: “L’umanità non deve diventare multi planetaria per salvarsi, ma salvarsi se vuole diventare multi planetaria”.

L’autore porta l’attenzione quindi sulle nostre responsabilità in merito ai rischi di sopravvivenza della specie umana: “Quando analizziamo le conseguenze dei cambiamenti ambientali prodotti dall’uomo, dobbiamo tenere presente che non stiamo parlando del rischio che la vita scompaia del tutto, o che il pianeta diventi inabitabile. La Terra, e la biosfera, sono state in grado di reggere ben altro. Quelli che potrebbero non farcela siamo noi”.

Di fronte poi ai cataclismi nel remoto avvenire, come la morte del nostro sole (fra miliardi di anni), le apprensioni si affievoliscono: come specie sapiens saremo già scomparsi da molto prima.

Il futuro delle esplorazioni spaziali dunque, per ora (e per parecchio tempo ancora) è riservato solo alle sonde e ai radar.

La conclusione dello scienziato può scoraggiare molti ma è indubbiamente il risultato di una considerazione effettuata su dati irrefutabili: “Tirando le somme, per l’umanità non esistono alternative realistiche al nostro pianeta nel Sistema solare”.

Su un altro pianeta

Amedeo Balbi

Rizzoli