“LE ETIOPICHE” AL CAMPLOY DI VERONA. RECENSIONE.

Luci e ombre nello spettacolo teatrale “ Le Etiopiche” al Teatro Camploy di Verona, produzione EN-KNAP Produzioni /CSSTeatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, con il sostegno di Dialoghi-Residenze delle arti performative a Villa Manin, per la regia, le coreografie e i testi di Mattia Cason, anche interprete insieme ai danzatori Katia Kolaric, Rada Kovacevik, Carolina Alessandra Valentini e Tamas Tuza.

In realtà sono numerosissime le partecipazioni a questo ambizioso progetto multimediale, che si avvale anche di diverse professionalità, legate soprattutto alle numerose presenze nel video, alle riprese dello stesso e soprattutto alle traduzioni delle diverse lingue utilizzate ( Yddish, persiano, aramaico, greco moderno, greco antico, turco e arabo), sottolineatura questa della lingua che, pur incomprensibile, mettiamo tra i pregi dello spettacolo, insieme alla moltitudine plurietnica delle persone coinvolte.

Ma lo spettacolo, prima parte di una trilogia incentrata sulla figura di Alessandro Magno, ci è apparso decisamente troppo ambizioso, in relazione alle forze e alle competenze messe in gioco, se consideriamo l’aspetto teatrale con i propri linguaggi.

Il passato e la storia si affacciano a brandelli nei testi che evocano le conquiste di Alessandro Magno, testi che inducono alla fascinazione della scoperta e dell’avventura lungo sentieri non battuti, intrecciandosi con la fatica dei sentieri di montagna in video del nostro presente. La conquista come usurpazione, di altri periodi storici a noi più vicini, e l’ostilità legata all’immigrazione che le immagini video suggeriscono, dialogano con le danze in scena che ci riportano al presente.

Contenuti che vengono appena toccati in superficie, con garbo, senza drammatizzazioni, ma anche senza penetrazione, con un andamento a tratti nebuloso che avrebbe avuto bisogno di un più convinto approfondimento.

Identica vaghezza rintracciamo nelle coreografie utilizzate, che non brillano per originalità e solo poche pregnanti. Anche la  danza, nonostante la preparazione tecnica, ci pare poco espressiva e la presenza scenica attoriale non ci pare sufficientemente forte.

Tutto lo spettacolo ci è parso impreciso e superficiale, nonostante il grande dispiegamento di mezzi tecnologici, mezzi peraltro ottimamente utilizzati in una bella interazione sfondo/scena e figuranti in video e attori in scena, con almeno un paio di effetti visivi di grande impatto estetico.

Se il messaggio della rifondazione di un’Europa afroasiatica ci suona, oggi come non mai, un bel messaggio di pace, speranza e accoglienza, non possiamo sorvolare su una drammaturgia esile, che non ne dimostra la fondatezza storica, pur dilatando l’incontro tra Greci e Persiani con Mnemone di Rodi, e la cui conduzione pare affidata ad un filo logico mentale che non trova pregnanza in questa messa in scena. Messa in scena che consideriamo coraggiosa ma ancora acerba, ricca di slancio ideale ma povera di strumenti.

Il che ci fa riflettere su quanto oggi il teatro” competente” perda terreno in favore dei temi trattati, diventando puro veicolo strumentale, spesso appoggiato e sostenuto ideologicamente: una considerazione generale questa, indipendente dalla bontà delle intenzioni. Lo spettacolo finisce per diventare un’operazione “furba”, capace di catalizzare consenso per ciò che dice, non per come lo dice.

E’ una sottolineatura che riteniamo doveroso fare in considerazione del Premio Scenario 2021, assegnato a questo spettacolo, con le seguenti motivazioni.” Storia e mito, plurilinguismo e multidisciplinarietà, complessità concettuale e artigianato teatrale che ricollocano nel passato tematiche del presente. Le etiopiche rilegge l’epica di Alessandro Magno alla luce della contemporaneità, aprendo una riflessione sull’Europa di oggi, in una prospettiva che contempla l’accoglienza come opportunità piuttosto che come limite (….) E’ così che prende forma l’idea di un’Europa del futuro, di matrice afroasiatica, aperta a una nuova socialità, più umana e più etica.”

Una motivazione che dimostra quanto lo spettacolo sia soprattutto premiato per le tesi che veicola, tesi peraltro ci è sembrato più allusa che scandagliata.

Ma a noi, che amiamo il teatro e le sue molteplici sfaccettature, questo non basta. Non basta perché da un lato svilisce il lavoro dell’attore, nella propria complessità e profondità, e dall’altro autorizza alla censura ( se un tema non mi è gradito lo boicotto).

Lo spettacolo si conclude con il simbolo della bandiera europea e il messaggio verbale esplicito rivolto al pubblico, mentre dal palcoscenico Mattia Cason invita il pubblico a perorare la causa con consigli e suggerimenti che vadano oltre la messa in scena, in modo da diventare un cavallo di battaglia politico.

Noi, pur intuendo la preoccupazione degli artisti in scena in questo difficile momento storico di grande conflittualità, ci limitiamo a guardare lo spettacolo in un contesto di palcoscenico  ( e non di comizio) come di fatto è, e diciamo: “ Non si può cominciare una costruzione se prima non ci si è preoccupati delle fondamenta, altrimenti la costruzione non regge.”

Visto l’11 marzo