REPORT DEL 26 OTTOBRE DEL T-DANCE FESTIVAL E BILANCIO COMPLESSIVO.

26 OTTOBRE

cindy van acker - shadowpiecesAlle 20.15 si inizia con il lavoro della coreografa svizzera Cindy Van Acker, presente al Festival con una serie di a soli intitolata Shadow pieces. Il V, interpretato da Stephanie Bayle, è quello a cui assistiamo. Un lavoro minimal, costruito in sottraendo, pulito, con vaghi richiami orientali. Poco espressivo, però, e dal contenuto indefinibile. Forse il senso del pezzo si afferrerà solamente quando si potrà assistere all’insieme degli undici a soli, che compongono un progetto tuttora in divenire – e il cui debutto è previsto per il novembre 2020.
A seguire, Stll (Here), in prima nazionale, della coreografa tedesca Silke Z, interpretato da Angus Balbernie e Lisa Kirsch. Un incontro, quello che si svolge sul palco, efficace sia a livello visivo che concettuale. Una performance che si può leggere a più livelli, dalla comparazione tra libertà e agilità nei movimenti a età differenti con la conseguente analisi sul concetto di danza (che attualmente sembra inflazionare un po’ il mercato, basti citare i progetti di Silvia Gribaudi), a livelli più profondi e pregni di poesia. Il desiderio d’incontro, esplicitato attraverso il tentativo di modellare il proprio gesto su quello dell’altro, può rimandare alla possibilità/necessità di dialogo intergenerazionale o, ancora, tra uomo e donna. Occorre, per alcuni, contenersi e, per altri, lasciarsi andare. Il dialogo nasce dal confronto, dal saper ascoltare, dal porsi in attesa, dall’introiettare e riflettere le amozioni dell’altro.

Dal punto di vista tecnico-espressivo, l’anziano Angus Balbernie (coreografo e performer) mostra di possedere un ritmo innato, una capacità espressiva anche quando muove semplicemente i polsi o le mani a tempo di musica – pari alla Carolyn Carlson di Immersion. Tutte le evoluzioni nello spazio della giovane Lisa Kirsch non riescono a comunicare con altrettanta sensibilità e ritmo un universo di senso.

Finale forse un po’ troppo tirato per le lunghe.
Alle 22.15 la serata si chiude con i fuochi d’artificio firmati da Kulu Orr.

Kulu Orr - freaky control_suit expositionControl Freak è un a solo multimediale ideato, realizzato e agito in scena dallo stesso autore, residente in Israele. Dietro la maschera del nerd (che in parte è, viste anche le lauree in fisica e matematica), Orr costruisce, con grande ironia ma anche con perizia tecnica e abilità nella giocoleria, uno spettacolo semplicemente pirotecnico, coinvolgendo gli spettatori in maniera intelligente e avvalendosi di un buon ritmo e strumenti musicali di sua invenzione. Indescrivibile: un’esperienza da fare e partecipare in prima persona.

Lunghi applausi calorosi, teatro gremito, finale tutto in crescendo – per lo spettacolo e per il Festival.

BILANCIO DELLE TRE GIORNATE

E ora veniamo a T-Danse nel suo complesso e alla tre giorni trascorsa ad Aosta, complessivamente molto positiva (grazie anche a una chiara direzione artistica di cui si scriverà più oltre) ma con alcune criticità che può essere utile evidenziare, visto anche che la Cittadella dei Giovani non sarà più uno spazio gestito da realtà diverse per manifestazioni estemporanee, ma è destinata a restare finalmente aperta, ad avere una direzione artistica e a ospitare anche una Stagione teatrale.
La prima sbavatura notata è l’uso improprio fatto da molti ragazzi, tra gli spettatori, dei cellulari per scattare fotografie durante gli spettacoli. A parte il fastidio di vedersi abbagliati dal flash mentre la sala è immersa nel buio totale per il gioco di lanterne di Reflet, o sentire un motivo musicale improprio inserirsi nelle atmosfere di M2, sembra che due messaggi non siano stati recepiti da tutti i ragazzi che hanno partecipato (con un entusiasmo che va, d’altro canto, sottolineato). Il primo è il valore del dialogo umano in teatro: tra attore e spettatore ma anche tra i membri del pubblico. Il cellulare non solamente disturba e distrae ma si pone anche come diaframma di quella realtà intessuta di corpi che è il teatro. In secondo luogo, sebbene il Festival abbia un forte legame con le nuove tecnologie (come notato nelle diverse performance) non è scevro da una sana critica verso le stesse (basti pensare a Stickman e alla denuncia del mezzo televisivo), e l’abuso del cellulare dovrebbe rientrare in quella stessa critica.
Si è anche sottolineato, e giustamente, come questo Festival grazie alle tante attività poste in essere di audience engagement, sia frequentato ampiamente da giovani e giovanissimi. Un plauso, ovviamente, alle politiche messe in atto. Ma se la Cittadella dei Giovani non vorrà trasformarsi in un centro sociale (spazio altrettanto utile a livello aggregativo ma, nel contempo, tanto includente quanto esclusivo) dovrà puntare su un pubblico trasversale, dai giovani agli adulti fino agli anziani, riuscendo a dialogare anche con gli aostani che a soli cento metri di distanza frequentano il corso pedonale tra bar, panetterie e bancarelle.
E infine è mancato lo spazio del foyer. Ossia un luogo al caldo (Aosta a fine ottobre, la sera, ha già temperature serali rigide) e accogliente, dove attendere gli spettacoli e dialogare con spettatori e artisti. Sembra che, purtroppo, non sia stato possibile aprire la caffetteria e, non avendo visto il locale, non si può sapere se quello spazio può dirsi adatto ma, obiettivamente, in vista anche di una Stagione teatrale invernale, il cortile all’aperto o la stanza approntata per l’aperitivo (fredda e poco accogliente) non rispondono a questa esigenza.
A parte queste piccole criticità sicuramente ovviabili, il Festival mostra due punti di forza che occorre sottolineare perché ne fanno una tra le manifestazioni più interessanti del panorama italiano. 
Il primo è il suo sguardo internazionale che permette sia agli spettatori sia agli addetti ai lavori di allargare i propri orizzonti, scoprendo contenuti e forme nuovi, linee di ricerca artistica inusuali, o al contrario una comunanza di tematiche che, sotterraneamente, stanno scuotendo l’intera Europa. Un respiro, questo, a livello di significato e di significante di cui si sentiva il bisogno dopo la soppressione di Teatro a Corte – e nonostante le modeste economie sulle quali può, al momento, contare il Festival.
Il secondo punto di forza sono i direttori artistici, di cui si avverte l’incisività nella scelta di una chiara linea di ricerca. Sempre più spesso, infatti, la direzione artistica si lascia trasportare dai presunti gusti del pubblico o cede a dinamiche quali lo scambio di spettacoli aldilà che gli stessi rispondano, o meno, a una visione artistica complessiva. Esistono Festival dove, anno dopo anno, si vedono sempre gli stessi artisti, quasi fossero degli habitué e il clima asfittico e provinciale di molte manifestazioni sta diventando indice, anch’esso, di una crisi generale di idee in ambito teatrale – e non solo. Questo non accade a T-Danse. Se Francesca Fini mostra la propria impronta scegliendo proposte vicine alla performance art (termine usato per renderci comprensibili, anche se si preferirebbe evitare qualsiasi inserimento in categorie del fare arte/teatro), sensibili alle nuove tecnologie, con un’attenzione particolare – almeno quest’anno – al lavoro delle performer; l’impronta di Marco Chenevier è altrettanto evidente. Ora, qualcuno obietterà che potrebbe essere meglio, per ampliare il parterre degli spettatori, mostrare generi eterogenei rincorrendo mode e gusti. Al contrario, personalmente, credo che ogni direzione artistica di una qualsiasi manifestazione teatrale debba essere ben connotata seppure limitata nel tempo, così da offrire un percorso coerente di ricerca che, al termine di un paio di mandati triennali (come dovrebbe avvenire grazie al Codice dello Spettacolo dal vivo per i Direttori dei teatri pubblici), potrà cambiare anche totalmente direzione con l’arrivo di nuovi responsabili.
Tornando alle scelte di Marco Chenevier, si notano due filoni coerenti anche con la sua poetica di artista. Il primo è una vocazione al superamento dei confini, a livello culturale, artistico e ideologico. Non solamente, quindi, ibridazioni felici tra arti e media, ma anche scambi fruttuosi transnazionali, un dialogo tra culture ed esperienze creative che travalica i confini geografici ma anche e soprattutto quelli eretti da chi pensa ancora di ingabbiare l’universo artistico in categorie vetero-accademiche, utili solamente a frammentare la ricerca, isterilire i percorsi e assegnare fondi pubblici, premi e spazi in base a concetti desueti – come i ministeri e gli enti che li impongono. In secondo luogo, si nota la forte concettualizzazione che sottende ogni proposta. Chenevier, nei suoi lavori, afferma di partire sempre da un’idea, una sola ma chiara e forte. Ogni performance vista a T-Danse risponde appieno a questa visione e non lo fa mai rimanendo in superficie. Gli spettacoli sono tutti leggibili a livelli diversi proprio perché pregni di senso. E il côté critico non viene mai meno. Se, infatti, il Festival ha evidenziato l’importanza della multimedialità e delle nuove tecnologie in rapporto con le ricerche artistico-espressive attuali, non è stato scevro da una denuncia della pervasività delle stesse nel nostro quotidiano e dei pericoli che corre anche il teatro, e il ruolo del performer in carne e ossa, in un confronto che può diventare impari, con uno stritolamento dell’essere umano e delle sue capacità – forse limitate ma, proprio per questo, a livello valoriale più preziose.

Una quarta edizione intensa che apre le porte, si spera, a una lunga e proficua stagione contemporanea e internazionale di fare teatro ad Aosta. 

Simona M. Frigerio
T-Danse, Cittadella dei Giovani di Aosta, sabato 26 ottobre 2019