MOBY DICK ALL’ARENA GEOTERMICA DI LARDARELLO (PISA). RECENSIONE.

@Ilenia Tesoro

@Ilenia Tesoro

A Larderello (Pisa) si svolge uno tra i festival più interessanti della Toscana, quello delle Colline Geotermiche che, grazie alle sinergie createsi tra Officine Papage ed Enel, ha portato, prima, alla riqualificazione di un imponente edificio di archeologia industriale e, poi, all’uso della stessa Arena Geotermica quale spazio per eventi teatrali, grazie anche alla sua forma che rimanda a quella semicircolarità propria delle origini greche e alla sua capacità di creare un’atmosfera insieme di raccoglimento e condivisione.
Qui si staglia, alta e imponente, l’antica ciminiera che sovrasta l’Arena e che fronteggerà, nel finale dello spettacolo, Moby Dick, simbolicamente la balena bianca, tecnicamente la struttura che Teatro dei Venti erge di fronte agli occhi degli spettatori e che, in quel confronto, crea un cortocircuito metateatrale di grande pregnanza: da un lato, la natura imbrigliata ma indomita – che sia un cetaceo o la forza del vapore proveniente dalle viscere della terra – e, dall’altro, l’essere umano, che seppure la vince, ne resta a sua volta avvinto, perché come scriveva Leopardi: “la dura nutrice, ov’ei men teme, / Con lieve moto in un momento annulla / In parte, e può con moti / Poco men lievi ancor subitamente / Annichilare in tutto”.
Ma veniamo allo spettacolo in sé e ai suoi molti pregi e un difetto.

Il primo pregio è indubbiamente la macchina scenica costruita da Stefano Tè come parte integrante dello spettacolo con una coincidenza drammaturgica, filosofica ed espressiva che potremmo avvicinare alle teorizzazioni di Edward Gordon Craig.

Di fronte agli occhi del pubblico un palco si trasforma, prima, nel veliero che solca gli oceani e, poi, nella stessa balena che è sì la presenza nemica ma anche, in una visione perennemente dualistica – o utopisticamente dicotomica – della realtà, il riflesso della nostra forza vitale, di quell’impulso prometeico che ha permesso all’essere umano di affrancarsi dagli dei conquistando il fuoco.

@Chiara Ferrin

@Chiara Ferrin

La scenografia è, quindi, intrinsecamente materia e struttura drammaturgica: plasmarla con la forza e la perizia dell’artigiano (o del marinaio) dà consistenza – visiva, ma anche di azione e di contenuto – al lavoro.

Quando i performer usano secchio e straccio non si può che partecipare alle righe di Conrad, mentre racconta ne Il negro del Narcissus,I ponti lavati brillavano come una chiara distesa; la luce obliqua del sole colpiva gli ottoni di schizzi abbaglianti e sfrecciava sulle barre lucidate in righe dorate, e le singole gocce d’acqua salata erano limpide come gocce di rugiada e sfavillavano più di una manciata di diamanti” (t.d.g.). Così come quando la danza rimanda al cameratismo fra marinai, tornano le medesime atmosfere conradiane e, se lo spettacolo vira verso i colori del musical, è I pirati di Polanski che si affaccia alla mente.
Tutto il nostro immaginario comune, fertilizzato dalle prime letture avventurose – da
L’isola del tesoro a I figli del Capitano Grant – e poi abbondantemente irrorato di pellicole e personaggi emblematici – da Capitan Uncino, in delicato equilibrio tra l’ironia di Bennato e la sinuosità dei disegni Disney, all’elegante Errol Flynn di Capitan Blood per arrivare al politicamente scorretto Jack Sparrow – si lascia catturare da questa ciurma che ci trascina in alto mare e, poi, nel ventre della balena, come Giona o Pinocchio.

Questa ricchezza di rimandi e contenuti si riverbera nella ricchezza di espressioni artistiche e linguaggi utilizzati da Teatro dei Venti, dalle acrobazie aeree alle battaglie sui trampoli, dalla danza alla musica dal vivo, fino alla costruzione a scena aperta della stessa macchina scenica che assume contorni metateatrali fa/festosi.
Ma proprio questa profusione di linguaggi si scontra con un limite: la parola. E qui apriamo un inciso. Il teatro ha davvero bisogno della parola per esprimersi? In questi anni tre spettacoli che immediatamente tornano alla mia memoria come
performance di poesia e incisività ineguagliati non utilizzavano, ma anzi rifuggivano, il verbo. Penso a Eloge du Poil di Jeanne Mordoj, al recente Pragma di Teatro Akropolis e, ancora, a Don’t go out Mrs. Brown di e con Chiara Vallini. E cito questi tre titoli in particolare, dei molti che potrei nominare, perché appartengono tutti – per chi ancora si fidasse delle distinzioni tra generi e delle definizioni o classificazioni – a modi di intendere e fare teatro, a poetiche e linguaggi anche diametralmente opposti.

@Chiara Ferrin

@Chiara Ferrin

Ma perché la parola non convince? In primis è una questione di scelta. Il Moby Dick è un testo immenso (e, in alcune parti, un po’ noioso). Ma la sua profondità sta nell’andare oltre il racconto marinaresco per affrontare il senso della vita da un punto di vista filosofico trasformando la realtà di una baleniera, il Pequod, e la caccia al capodoglio in un circo/mondo dove si rappresenta l’allegoria dell’intera condizione umana – per non parlare di tutte le dissertazioni sull’arte o sulla scienza, o i rimandi ai grandi temi biblici (e danteschi) sui limiti umani. Ecco, quindi, che scegliere monologhi o dialoghi semplicemente esplicativi (Achab, ad esempio, che si presenta al pubblico: già ben riconoscibile grazie a un altro segno, ossia la gamba di legno) non aggiunge informazioni o rende più poetica o profonda la messinscena nel suo farsi. In secondo luogo, spesso si ha l’impressione che le parole servano da riempitivo: laddove i performer devono muovere o modificare la struttura, dove lo spettatore dovrebbe perdersi nel gesto e nel movimento, nella costruzione di senso (à la Craig) data dalla realizzazione della balena, ecco che interviene la parola quasi fosse necessario, su un palcoscenico, riempire sempre e comunque i silenzi (che, al contrario, possono essere momenti espressivi proprio nella loro mancanza di voce, suoni o musica). E infine il testo, ridotto a presentazioni, un confronto sulla spossatezza dell’equipaggio (già ben dimostrata dalla gestualità dei performer) e il monologo finale di Achab che si accartoccia sulla balena in un abbraccio anche esteticamente non riuscito (unico momento dove l’immagine non è all’altezza dello spettacolo e, purtroppo, proprio nel finale) non solamente risulta eccessivamente riduttivo rispetto al romanzo di Melville ma diventa riduttivo rispetto allo spettacolo stesso.

In altre parole, laddove Moby Dick del Teatro dei Venti avrebbe la forza per raccontare interi universi di senso, per balzare da un’immagine filmica a una pagina di libro, per sollecitare e solleticare tutto il nostro immaginario comune, questo testo così didascalico riporta tutto a una dimensione meno infinita, meno universale, meno coinvolgente.

Ciò si nota ancora di più in uno spazio site-specific altamente simbolico come l’Arena Geotermica. Quando la balena si erge a fronteggiare la ciminiera di Larderello, la possenza umana e il tentativo di imbrigliare la natura si scontrano con la selvaggia ma fragile indomabilità della Terra che ci circonda e ospita; quando il capodoglio si riflette nel volto e nelle parole di Achab, tutto si riduce a un piccolo essere umano che ha gettato alle ortiche, o ai gorghi, quarant’anni di vita.

Ma Melville era ben più di questo. “Il peso della farfalla gli era finito sopra il cuore, vuoto come un pugno chiuso”, scriveva Erri De Luca. Così “l’uccello del cielo, con strida d’arcangelo, il becco imperiale spinto verso l’alto e tutto il corpo imprigionato nella bandiera di Achab, andò a fondo con la sua nave, che, come Satana, non sarebbe scesa all’inferno finché non avesse trascinato con sé una parte viva di paradiso” (t.d.g.).

Simona Maria Frigerio
Visto al Festival delle Colline Geotermiche, a Larderello (Pisa), domenica 18 agosto