LA SALOME’ DI STRAUSS AL TEATRO FILARMONICO DI VERONA

Con una delle pietre miliari del teatro in musica del Novecento, la “Salomè” di Richard Strauss, Fondazione Arena di Verona ha concluso al Teatro Filarmonico di Verona la stagione operistica al chiuso, in attesa della programmazione estiva nell’anfiteatro romano.

Il lavoro è strettamente legato all’omonimo dramma di Oscar Wilde, decadente e trasgressivo, tanto che l’autore lo scrisse in francese per farlo rappresentare a Parigi nel 1896, mentre per le scene di Londra avrebbe dovuto attendere fino al 1931. Richard Strauss commissionò la traduzione dello scabroso titolo alla poetessa Hedwig Lachmann, per fare di esso il libretto di una nuova opera che avrebbe segnato un’importante svolta nella sua produzione artistica.

Con “Salomé”, infatti, Strauss, abbandonate le precedenti esperienze di teatro romantico post-wagneriano, entrava in un clima culturale di rottura, fortemente improntato sia agli inediti studi freudiani sull’inconscio, sia agli innovativi fermenti musicali del momento, incappando così egli pure nei rigori della censura.

Per gli ambienti imperiali viennesi, la straordinaria incisività descrittiva ed evocativa, anche attraverso i mezzi musicali, di ogni piega di deviante sensualità che informa la storia, non fu ritenuta accettabile, determinando così lo spostamento del debutto della “Salomé” straussiana dalla capitale alla più decentrata Dresda. L’allestimento di Marina Bianchi, ideato per Fondazione Arena, che lo ha messo in cartellone dal 20 al 27 maggio, punta a un’astrazione universale della storia.

Eliminato l’esotismo originario, il contesto scenico diviene quello asciutto e stilizzato di Michele Olcese, che articola lo spazio in due ambienti: uno di gusto classicheggiante, allusivo al palazzo di Erode, e uno più razionalista, evocante la prigione del Battista.

Sullo sfondo, pure bipartito, la proiezione delle diapositive di Con una delle pietre miliari del teatro in musica del Novecento, la “Salomè” di Richard Strauss, Fondazione Arena di Verona ha concluso al Teatro Filarmonico la stagione operistica al chiuso, in attesa della programmazione estiva nell’anfiteatro romano. Il lavoro è strettamente legato all’omonimo dramma di Oscar Wilde, decadente e trasgressivo, tanto che l’autore lo scrisse in francese per farlo rappresentare a Parigi nel 1896, mentre per le scene di Londra avrebbe dovuto attendere fino al 1931. Richard Strauss commissionò la traduzione dello scabroso titolo alla poetessa Hedwig Lachmann, per fare di esso il libretto di una nuova opera che avrebbe segnato un’importante svolta nella sua produzione artistica. Con “Salomé”, infatti, Strauss, abbandonate le precedenti esperienze di teatro romantico post-wagneriano, entrava in un clima culturale di rottura, fortemente improntato sia agli inediti studi freudiani sull’inconscio, sia agli innovativi fermenti musicali del momento, incappando così egli pure nei rigori della censura. Per gli ambienti imperiali viennesi, la straordinaria incisività descrittiva ed evocativa, anche attraverso i mezzi musicali, di ogni piega di deviante sensualità che informa la storia, non fu ritenuta accettabile, determinando così lo spostamento del debutto della “Salomé” straussiana dalla capitale alla più decentrata Dresda. L’allestimento di Marina Bianchi, ideato per Fondazione Arena, che lo ha messo in cartellone dal 20 al 27 maggio, punta a un’astrazione universale della storia. Eliminato l’esotismo originario, il contesto scenico diviene quello asciutto e stilizzato di Michele Olcese, che articola lo spazio in due ambienti: uno di gusto classicheggiante, allusivo al palazzo di Erode, e uno più razionalista, evocante la prigione del Battista.

Sullo sfondo, pure bipartito, la proiezione delle diapositive di Matilde Sambo (peraltro, non di alta pregnanza, ci è sembrato) e quella della luna, pertinente simbolo, per eccellenza, di femminilità.

Di eclettica ispirazione pure i costumi di Giada Masi, dall’austerità senza guizzi, anche quando vengono caricati di simbologie.

Interessante l’inserimento dei movimenti mimici di Riccardo Meneghini (con qualche piacevole sconfinamento nell’ambito del coreutico) raddoppianti la figura di Salomè e delle sue ambigue e inquietanti ancelle; come quello delle luci di Paolo Mazzon, ben giocate in chiave psicanalitica con suggestioni espressioniste, su ambienti e personaggi.

Michael Balke è un giovane direttore molto affermato a livello internazionale, sia in ambito operistico che sinfonico, specialmente nel repertorio tedesco. Al Filarmonico di Verona si è fatto apprezzare per la concertazione della complessa partitura, dalla sensualità insinuante e decisa, miscelante modi tonali e dodecafonici (con le varie declinazioni intermedie) e dall’organico previsto dallo stesso autore variabile — dalla grande orchestra a uno strumentale quasi cameristico. Buona la resa dell’orchestra della Fondazione, in parte dislocata nei palchetti di proscenio, data la limitata capienza, per l’occasione, del golfo mistico.

Tra le voci, spicca quella possente e timbrata di Fredrik Zetterström, uno Jochanaan di tetragona santità. Nadja Michael è Salomè di prorompente fisicità e sicura presenza scenica, dalla vocalità importante se pur non sempre impeccabile.

Kor-Jan Dusseljee, buona linea di canto in contenuto volume, manifesta anche con corporeità talora ondivaga tutte le perverse debolezze del ruolo di Erode. Cinicamente appropriata l’Erodiade, madre e regina, di Anna Maria Chiuri. A posto Enrico Casari, quale Narraboth, e caratterizzato con incisività il Paggio di Belén Elvira.

Bene, inoltre, tutti gli altri: Nicola Pamio, Pietro Picone, Giovanni Maria Palmia, Paolo Antognetti, Oliver Purckhauer (Cinque Giudei); Romano Dal Zovo, Stefano Consolini (Due Nazareni); Costantino Finucci, Gianfranco Montresor (Due Soldati). Con Alessandro Abis (Un uomo della Cappadocia) e Cristiano Olivieri (Uno Schiavo).

Pieno successo di pubblico.

Visto il 24 maggio

Franca Barbuggiani