“SODDISFATTI O RIMBORSATI” A TEATRO: I DIRITTI DELLO SPETTATORE.

Se accade facilmente in un qualsiasi teatro di piazza che lo spettatore abbandoni lo spettacolo in corso di esecuzione per andare altrove, lo stesso non accade quasi mai in teatro. Difficilmente uno spettatore si alza e guadagna l’uscita prima della conclusione dello spettacolo. Ricordo di averlo visto fare recentemente da una piccola parte di platea, una decina di persone, al Teatro Cuminetti di Trento, durante lo spettacolo “ Trilogia degli occhiali” di Emma Dante, immediatamente dopo la prima piece, in una pausa per cambio scena: un’ uscita motivata ed espressa dal disagio provato di fronte alle immagini di voluto cattivo gusto dello spettacolo. Ma lì forse la pausa lo consentiva. Mi è però difficile pensare che sempre tutti gli spettatori siano soddisfatti di quanto vedono a teatro. Cos’è quindi che li trattiene ugualmente fino alla fine? L’implicita coercizione del luogo o il rispetto per chi sul palcoscenico sta lavorando? La paura di essere notati o il pagamento del biglietto? E se ci fosse la possibilità di un risarcimento economico in caso di spettacolo non gradito, quanti se ne andrebbero e quanti invece in più verrebbero a teatro sapendo di avere questa opportunità di scelta?

La domanda è provocatoria perchè, comunque le si risponda, presuppone l’esercizio critico dello spettatore, oggi più traguardo che prassi, non per incapacità crediamo, ma per addestramento all’omologazione, silenzio indotto, paura dell’anticonformismo e di chissà quali ritorsioni….. Forse prevedere un rimborso di biglietto aumenterebbe l’affluenza del pubblico, forse i teatri e gli attori avrebbero più elementi sui quali riflettere, anche se il nodo cruciale sarebbe sempre lo stesso: inseguire il consenso del pubblico o cercare di innalzarne l’esigenza culturale? E non sarebbe buona prassi quella di “discutere” dopo lo spettacolo, di rendere partecipe il pubblico del suo processo di produzione e di registrarne gli effetti? Magari tornando all’antico e oggi desueto lancio di pomodori, capace di risvegliare passioni, curiosità e partecipazione, ragioni di espressione di consenso e dissenso, tavola aperta di confronto tra attore e spettatore? E’ certo che diventa sempre più imperativo trovare un terreno di incontro il più possibile allargato nel territorio, se pensiamo al teatro ( così come pensiamo della cultura) non come ad un linguaggio elitario, ma diritto e patrimonio di tutti, non bene superfluo e accidentale, ma intrinsecamente connaturato allo stato di civiltà di un popolo. Solo in questa chiave ha senso il valore pedagogico del teatro ( non solo per i ragazzi ma per tutti, per chi lo fa e per chi lo guarda) da più parti auspicato.E ovviamente, per la stessa ragione, dovrebbe essere gratuito, bene di valore irrinunciabile come la scuola, i dibattiti politici,( quelli veri non i talk show) le conferenze, le mostre e tutte quelle proposte culturali che contribuiscono a far crescere l’individuo e la collettività. Ma è evidente che oggi si preferisce mantenere la collettività nell’ignoranza, perchè le menti pensanti sono scomode a tutti e non è vero che per colpa della crisi non ci sono i soldi, perchè improvvisamente compaiono per pagare stratosferiche cifre ad artisti che “fanno cassa”. Ma questo, del rapporto tra soldi e cultura, è un altro capitolo che meriterebbe specifico approfondimento.

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Emanuela Dal Pozzo