APPROFONDIMENTI CULTURALI

AICC ( Associazione Italiana di Cultura Classica) CLE (Centrum Latinitatis Europae)-

Delegazioni di VERONA

Presidente: prof.ssa Angiolina Martucci Lanza. 

Comitato direttivo: prof.ssa Mirella Leone, prof.ssa Daniela Ceoletta,  signor Orazio Pavone. 

Ogni anno, elaboriamo un progetto culturale ( quest’anno : L’importanza della Parola ) e invitiamo a svilupparlo a sapienti disponibili a offrire le loro meravigliose competenze senza alcun compenso.   

Lo possiamo fare grazie all’autorevolezza della professoressa Angiolina Martucci Lanza e con l’impegno del Comitato Direttivo.

Raccolti, esaminati ed accettati i temi, viene elaborato un Programma costituito da circa 24 eventi. Il programma viene presentato all’Ufficio Scolastico Provinciale, alla Provincia e al Comune per il patrocinio ( senza richiesta di contributo).

Ottenuto il patrocinio proponiamo ai Dirigenti Scolastici del Liceo Statale Carlo Montanari  e dell’Educandato Statale Agli Angeli che ci concedono, gratuitamente, i locali e l’assistenza.

Ai nostri eventi possono partecipare tutti i cittadini e sono ad ingresso libero. Per gli studenti e gli insegnati, se richiesto, rilasciamo l’attestato di frequenza. 

L’Associazione intende rivolgersi a tutti i cittadini di Verona, avidi di sapere e vivi nel cuore.

 

CALENDARIO DEGLI INCONTRI 2018/19

DATA                           TITOLO                                            RELATORE                                     LUOGO

5 ottobre            “La musica è un linguaggio”                    Gabriele Galvani                               Liceo Statale C.Montanari

                                                                                           Norma Solli

11 ottobre           “Il sussurro degli dei”                            Maurizio Damiano                        Educandato Statale Agli Angeli

                  (La lingua segreta dei geroglifici egizi)

19 ottobre       “ La lingua, terra dell’uomo”                      Stefano Quaglia                                 Liceo Statale C.Montanari

25 ottobre            “La nobiltà veronese”                           Alberto Lembo                                Educandato Statale Agli Angeli

9 novembre      “ Dante, la musica e l’araldica”                  Mario Palazzi                                    Liceo Statale C. Montanari

15 novembre      “Fiume 2020: capitale della                    Augusto Rippa                                Educandato Statale Agli Angeli

                                    cultura europea”

23 novembre          “Il potere della parola”                      Daniela Ceoletta                                   Liceo Statale C.Montanari

                          un percorso nel Decameron

29 novembre     “Lisia:l’eleganza della parola”                   Silvia Pachera                              Educandato Statale Agli Angeli

7 dicembre       “Le parole come si fondono                     Oreste Ghidini                                     Liceo Statale C.Montanari

                      con le note musicali nel melodramma”

13 dicembre        “Concerto per pianoforte e                  Paolo Baccianella                              Educandato Statale Agli Angeli

                           orchestra”                                           Elena Semenova

10 gennaio      “I Bronzi di Riace: le altre verità”         Giulia Cesare Papandrea                            Educandato Agli Angeli

18 gennaio         “Hommage a Claude Debussy”                  Luisa Och                                          Liceo Statale C.Montanari

24 gennaio          “ Ciò che è vivo e ciò che è morto            Michele Nigro                                      Educandato Agli Angeli

                                 nel pensiero filosofico”

1 febbraio                 “Tra parola e silenzio                           Silvia Pachera                                       Liceo Statale C.Montanari

                                 un percorso Alfierano

7 febbraio             “ La Repubblica Romana”                       Giovanni Masciola                                  Educandato Agli Angeli

15 febbraio       “ La parola profetica di Cassandra”              Mirella Leone                                         Liceo Statale C.Montanari

21 febbraio               “ Dire l’indicibile”                             Daniela Ceoletta                                          Educandato Agli Angeli

                             riflessioni sulla Commedia

15 marzo                “ La comunicazione”                             Battistino Sanna                                      Liceo Statale C.Montanari

                    verbale, paraverbale e non verbale

21 marzo                 “Cinema e poesia”                              Mario Guidorizzi                                        Educandato Agli Angeli

5 aprile          “ Le eroine del melodramma                          Gianni De Polo                                        Liceo Statale C.Montanari

                                        pucciniano”

11 aprile                  “Oltre la selva- parola storia              Michele Nigro                                             Educandato Agli Angeli

                                         e spiritualità”

2 maggio             “ Favole e musica”                             Alessandra Bisighini-                                    Educandato Agli Angeli

                                                                           Elena Semenova- Paolo Baccianella

10 maggio         “ Il potere della musica:                          Gabriele Galvani                                    Liceo Statale C.Montanari

                            le emozioni”                                         Norma Solli

 

Sintesi dell’intervento di Mario Palazzi del 9 novembre 2018

 

DANTE, LA MUSICA, L’ARALDICA

Dante Alighieri (1265-1321), nobile fiorentino, oltre che sommo poeta fu paroliere ante litteram. Esperto di Musica, una delle 7 “Arti liberali”, scriveva le sue liriche come “modulationi armonizate”, destinate a essere musicate: nella canzone Amor che ne la mente mi ragiona, eseguita dall’amico Casella (Purg. 2° canto), egli anticipa di sei secoli Mogol e Battisti! Dante affronta il rapporto tra musica e poesia in 3 opere antecedenti la Divina Commedia, Vita Nuova, De vulgari eloquentia, Convivio. L’amore di Dio, tema centrale della D.C., è simboleggiato dalla musica, che è ordine e proporzione: nell’Inferno, dove manca l’amore, non c’è musica; nel Purgatorio dove le anime penitenti cantano all’unisono, risuona la monodia gregoriana (amore imperfetto); nel Paradiso trionfa la polifonia, linguaggio degli angeli (amore assoluto).

Le composizioni ispirate ai versi danteschi, dal XV al XXI secolo sono ~ 200, da Josquin Desprez sino a Luciano Berio, per arrivare a Dante Pop (2016), che elenca i cantautori, da Battiato a Cocciante, a Gianna Nannini, a Vecchioni. Nel corso della presentazione, per immagini commentate, con riproduzione di brani musicali, sono stati presentate rarità ritrovate, quali la Francesca da Rimini di Luigi Mancinelli (1907), antesignano di Ennio Morricone, che compose 2 colonne sonore 9 anni prima del Cantante di Jazz (1927),1° film sonoro, e il Romeo e Giulietta di Filippo Marchetti (1865), che nel 1° atto rievoca con balli, teatro e maschere l’atmosfera del carnevale di Verona.

Dante era anche appassionato di Araldica, scienza ausiliaria della storia, materia di corsi universitarî. Gli stemmi, per la loro funzione identificatrice, erano usati non solo dai nobili, ma anche da corporazioni (Arti), chierici e magnati (popolani grassi e possenti: Villani). Nel girone degli usuraî Dante ne identifica tre descrivendone l’arma, senza nominarli. Nel 1913 furono murate sulle facciate dei palazzi di Firenze 34 lapidi, con terzine tratte dalla D.C.; lo stesso anno la studiosa Ida Riedisser pubblicò il volumetto Inscriptions from Dante’s Divina Commedia in the Streets of Florence, includente 20 stemmi. Chi scrive pubblicò negli Atti del 32° Convivio della S.I.S.A.(2014) il 1°saggio su Dante, la Musica e l’Araldica, con 52 stemmi blasonati. Il padre Dante, guelfo bianco (non: ghibellin fuggiasco!), che tonava contro le sfacciate donne fiorentine/che van mostrando con le poppe il petto e la corruzione (la gente nova e i súbiti guadagni) nel 1302 fu esiliato dai guelfi neri, con le infamanti accuse di baratteria e pederastia! Gli rese giustizia il veneziano Nicolò Liburnio con La spada di Dante (1534) “opera utile a fuggire il vizio et seguitar virtú”. Dante esule fu ospite dei signori Della Scala, Malaspina, da Camino, da Polenta. Scrisse la D.C. tra il 1207 e il 1321, dedicando il Paradiso a Cangrande. La conferenza si è conclusa con un omaggio al poeta Jorge Luis Borges, che nei Nove saggi danteschi (1985), editi un anno prima della sua morte, scrisse: ”Se dovessi indicare una sola opera come vetta di tutta la letteratura, sceglierei la D.C. di Dante”.

Mario Palazzi

Dante 4(1)

Monografie e Articoli storico-araldici e musicali

MONOGRAFIE E ARTICOLI DI MARIO PALAZZI

01 M. Palazzi, Le tentazioni di Martiniano descritte da Antonio Palazzi ne Il Giornale di Vicenza, a. XXXVII n. 42, p.3, 1 febbraio 1983.

02 M. Palazzi, Antonio Palazzi, uno sconosciuto autore del’600 vicentino in Vicenza, Rivista della Provincia anno XXV, n.1, p.76, 1983.

03 M. Palazzi, I Palazzi, seicento anni di storie vicentine in un albero genealogico ne Il Giornale di Vicenza, anno XXXIII, n…, p. 12, 4 aprile 1991.

04 M. Palazzi, Sotto la Croce di Malta: nove secoli di storia dei Cavalieri gerosolimitani in Italia Reale, anno XXV, n. 11, p. 11, dicembre 1991 [lo stesso articolo comparve nel numero unico Quaderno Accademico 1492-1992 dell’Istituto Hispano per il Mediterraneo, n.1, p.7, 1992, stampato a Madrid e distribuito a Siviglia, in occasione dell’Expo del 1992].

05 M. Palazzi, La Musica e la Monarchia I: Re e Principi musicisti e compositori in Italia Reale, anno XXVII, n.3, p. 11, marzo 1993 [ristampato con diversa iconografia in Italia Reale, anno XLVI, n.5, p. 11, maggio 2007].

06 M. Palazzi, La Musica e la Monarchia II: Dieci secoli di musica sabauda, dalla Polifonia al Rock: 1) Lo Stato Sabaudo (secoli X-XIX; 2) L’epopea risorgimentale (1848-1870); 3) L’età umbertina (1878-1900) in Italia Reale, anno XXVII, n.4, pp. 13-14, aprile 1993 [ristampato con diversa iconografia in Italia Reale, anno XLVI, n.6, p. 11, giugno 2007].

07 M. Palazzi, La Musica e la Monarchia III: Dieci secoli di musica sabauda, dalla Polifonia al Rock: 4) Il Regno di Vittorio Emanuele III (1900-1946) in Italia Reale, anno XXVII, n.5, p.11, maggio 1993 [ristampato con diversa iconografia in Italia Reale, anno XLI, n. 7, p. 10, luglio 2007].

08 M. Palazzi, Metti, una sera a cena col Feudatario in Controrivoluzione nn. 46-47, dicembre 1996-maggio ’97, pp. 53-54 [lo stesso articolo comparve in Italia Reale, anno XXVII, n.4, p. 6 e nel Notiziario dell’Associazione Nobiliare Regionale Veneta (A.N.R.V), pp. 3-4, gennaio 1997].

09 M. Palazzi, Riscosse le decime di Schiavon fino al 1971 nel Notiziario dell’Associazione Nobiliare Regionale Veneta gennaio 2000, p.7.

10 M. Palazzi, Editti dei Rettori Veneti della città di Vicenza in materia di Sanità nel ‘700, registrati dal Cancelliere Gio. Battista XIV Palazzi, in Italia Reale, anno XXXV, n. 5, pp. 11-12, maggio 2001 [una sintesi dell’articolo fu pubblicata nel Notiziario dell’A.N.R.V., febbraio 2001, p. 2-3].

11 M. Palazzi, Per Dio, per la Patria e il Re! Musica sabauda, da Umberto Biancamano a Umberto II in Agenzia di Stampa FERT, anno 5, n. 4, pp. 10-11, giugno-luglio 2002.

12 M. Palazzi, Cronaca del diritto di decima esercitato per 580 anni dai nobili Palazzi nel feudo di Schiavon (VI): 1391-1971 in Atti del 31° Convivio della Società Italiana di Studî Araldici, pp. 147-172, Verona, 19 ottobre 2013.

13 M. Palazzi, I Nobili Collegî dei Giurisconsulti e dei Nodari di Vicenza e gli esponenti della famiglia Palazzi che vi appartennero: cronistoria, tra virtú e trasgressione in Notiziario dell’Associazione Nobiliare Regionale Veneta, Rivista di Studî storici. NS/6, pp. 155-175, 2014.

14 M. Palazzi, Dante, la Musica e l’Araldica in Atti del 32° Convivio della Società Italiana di Studî Araldici, pp. 197-222, Torino, 11 ottobre 2014.

15 M. Palazzi, Antonio Palazzi (1652-1726), Accademico Olimpico e le famiglie nobili dedicatarie dei suoi componimenti, in prosa e in versi, in Atti del 33° Convivio della Società Italiana di Studî Araldici, pp. 243-260,Torino,21 novembre 2015.

16 M. Palazzi, Rarità e curiosità musicali sabaude in Italia Reale, anno 50°, n.1, pp. 14-15, gennaio-febbraio 2016.

17 M. Palazzi, “Europa, in piedi!”: Musica per il Trono e per l’Altare, tra Rivoluzione e Restaurazione in Nobiltà , anno XX, n 131, pp. 237-256, marzo-aprile 2016.

18 M. Palazzi, Quattro processi inediti intentati da nobili vicentini nella seconda metà del’600, in Atti del 34° Convivio della Società Italiana di Studî Araldici, pp 201-215, Torino, 12 novembre 2016.

19 M. Palazzi, San Martiniano, l’agiografo fu il vicentino Palazzi ne Il Giornale di Vicenza, a. 71 n. 67, p. 49, 9 marzo 2017.

20 M. Palazzi, 1798-1805: l’ultimo Consiglio Nobile di Vicenza in Notiziario dell’ dell’Associazione Nobiliare Regionale Veneta, Rivista di Studî storici, NS/9, pp. 85-133, 2017.

21 M. Palazzi, Podesterie e Vicariati vicentini e veronesi e stemmi comunali derivati da armi nobiliari, in Atti del 35° Convivio della S.I.S.A, Torino, 14 ottobre 2017, pp. 177- 216.

22 M. Palazzi, Torre, rocche e castelli negli stemmi comunali dei Territorî di Verona e Vicenza in Atti del 36° Convivio della S.I.S.A, Torino,20 ottobre 2018, in press.

Libro: Il Cantore del Parnaso Vicentino: Antonio Palazzi Il pro-manuscripto del 1983, miniato a colori, con prefazione dell’illustre storico prof. Giovanni Màntese (1912-’92), per la prima volta raccoglie l’opera omnia dell’Accademico Olimpico e il testo trascritto in grafia moderna del ms La costanza christiana di Martiniano Cesarèo, rimasto inedito dalla fine del ’600. Il mio pro-manuscripto è stato utilizzato per 2 libri .

a stampa:

-G. Màntese, Memorie Storiche della Chiesa Vicentina, vol.5, tomo 2, Accademia Olimpica, pp. 776-777, Vicenza 1983 capitolo su Antonio BXI Accademico Olimpico; cita il dr Mario XX Palazzi.

G. Dellai, Schiavon e Longa 1^ edizione, Eridano ed. Vicenza 1994; 2^ edizione ampliata, La Serenissima, Vicenza, giugno 2005  notizie sui Palazzi tratte dal mio pro-manuscripto

Conferenze con diapositive::

  • Per Dio, per la Patria e i Re! Le musiche dei Re d’Italia (con riproduzione di rarità musicali inedite). Verona, Club al Teatro, 21 febbraio 2014.
  • Memorie ritrovate: sei secoli di storie schiavonesi e venete lungo l’albero Palazzi. Schiavon, Sala Consiliare, 4 marzo 2015.
  • Stemmi comunali vicentini derivati da Armi di Famiglie nobili vicentine, con un excursus storico-araldico sul Territorio veronese. Verona, Club al Teatro, 11 gennaio 2018.
  • Dante, la Musica e l’Araldica. Verona, A.I.C.C., Palazzo Ridolfi-Da Lisca, 9 novembre 2018

Interviste:

-NN, L’ultimo Gattopardo che inneggia al Re! [Mario Palazzi] ne Il Nuovo Veronese, anno XI, n.19, p 26, 11 maggio 1987.

-G. Benini, [Mario] Palazzi: un medico eclettico ne L’Altro Giornale [VR], anno XXIV n.2 p. 7, febbraio 2009.

La famiglia Palazzi a partire dal 1829 è presente in tutti i Libri d’Oro italiani e in alcuni francesi e inglesi.

Dal 1958 al 2018 è stata citata nei periodici: L’ Altro Giornale – Casa! – Castello di Artú- Domenica di Vicenza – Epoca (allegato 1994) – Giornale di VicenzaNuovo Veronese – Quatro Ciacole – Specchio – Storia Illustrata – Sul Tutto – Vita Vicentina – Voce dei Berici e in pubblicazioni di: A. Bruttomesso (1999) – O. Bullato (2001) – R. Cevese (1971) – F. Crivellaro (2016) – G. Dellai (1994; 2005) – Istituto Regionale Ville Venete (2005) – M. Kubelik (1977) – A. Lembo (1971) – F . Lomastro 2009 – G. Mantese (1969, ’76, ’78, ’82) – G. Muraro (1999) – A. Ranzolin (1989) – W. Stefani (1985) – A. Stella (1994) – A. Tagliaferri (1976) [61 voci sino a giugno 2018].

 

 

 

VERONA: APPUNTAMENTI CULTURALI AL CAFFE’

a cura di Franca Barbuggiani  (franca.barbuggiani@live.it)

Con: Angiolina Martucci Lanza (“Il sogno e i sogni nel mondo classico”); Mirella Leone (“La scrittura labirintica di Nietzsche”,”Attualità del mito della caverna di Platone”); Pietro Moretto (“Sull’origine del culto di Santa Lucia”, ” Santa Lucia fuori Italia e in Scandinavia in particolare”, “Il cinema indiano e il Mahabharata”. “Da Bollywood alla letteratura sanscrita. Alcuni lineamenti”); Silvia Pachera ( “Le origini della maschera di Arlecchino”); Eliseo Peretti (” Il culto di Santa Lucia a Verona”, “Santa Lucia fuori Italia e in Scandinavia in particolare”, “Il culto e la devozione di Santa Lucia”) ; Beatrice Pinotti (” La moda è una traiettoria: visione e bellezza secondo Paco Rabanne”, “Tra il grottesco e il sublime: Alejandro Jodorowsky umanista ribelle”); Laura Zanolli ( “Le campane dall’antichità ad oggi”)

 

                   LA MODA E’ UNA TRAIETTORIA: VISIONE E BELLEZZA SECONDO PACO RABANNE

 

La definizione di “stilista “ è davvero limitativa, e in parte fuorviante, quando si parla di Paco Rabanne: il “metallurgico della moda”, come lo definì Mademoiselle Coco, o addirittura “il secondo genio di Spagna dopo di me”, come lo considerava Salvador Dalí (che non menziona Picasso!).

Certamente, il contributo di Paco Rabanne alla moda è stato fondamentale. Tanto più significativo, e ancor oggi attuale, se pensiamo al suo peculiare progetto estetico, che fa della bellezza una provocazione, assimilando il femminile al maschile e democratizzando i modelli nell’alternare alta moda e prêt-à-porter.

Sono principi rivoluzionari, niente affatto “astratti”. Paco Rabanne li ha tradotti in precetti estetici, unici, quali l’utilizzo di materiali “importabili” e l’invenzione dell’abbigliamento “unisex”; la produzione di capi ispirati all’eccesso, giungendo allo strabiliante e perfino all’umoristico. Per lui vale il paradosso con cui Oscar Wilde sintetizzò la sua vicenda umana: “Nelle mie opere ho messo il talento, nella mia vita il genio”.

Accostarsi alla vita di Paco Rabanne — raccontata in prima persona nella sua autobiografia Traiettoria — riserva davvero molte sorprese. Nasce nel 1934 a Pesajes de San Pedro, nei Paesi Baschi. Il suo vero nome è Francisco Rabaneda-Cuervo e cioè (ma vedremo che questa non è la lettura integrale del cognome) “Francesco Fetta di Pane Nero”.

La sua fu un’infanzia infelice, segnata dalla guerra civile spagnola e dalla seconda guerra mondiale. Il padre, generale repubblicano, coordinava le forze militari nelle zone settentrionali della Spagna. Ciò comportava spostamenti continui, anche della famiglia, nei vari fronti di combattimento, finendo a Guernica quando la città venne bombardata dai tedeschi nel maggio del 1937. Nel 1939 il padre di Paco venne fucilato dai Franchisti e la famiglia si rifugiò in Francia dopo un viaggio drammatico.

La Francia, secondo Rabanne, era da sempre nel suo destino, tanto che, nella sua autobiografia, Paco definì questo viaggio come un ritorno al suo paese-mito. Il corvo, scolpito sin dal Seicento nello stemma dei Rabaneda-Cuervo, è infatti l’uccello che, secondo la leggenda, guidò i Franchi dagli Urali alla Francia.

A diciassette anni, Paco si iscrisse alla Facoltà di Architettura della Scuola di Belle Arti di Parigi. In parallelo, egli iniziò un percorso di ricerca interiore. Studia e legge “enormemente”, passando da esperienze iniziatiche a pratiche spiritistiche, con un interesse costante per le opere dei grandi mistici cristiani.

Tra tutti predilige il pensiero di Jacob Böhme, il grande mistico tedesco vissuto tra XVI e XVII secolo. Gli studi mistico-religiosi di questo pensatore sono contrassegnati anche da approfondimenti nelle diverse discipline della filosofia, della magia e della alchimia, coerentemente con il suo pensiero: “Il mondo visibile è un simbolo del mondo invisibile”.

La formazione di Rabanne, quale architetto, avrebbe dovuto portarlo alla progettazione di grandi opere (tra l’altro, il suo mentore e maestro fu August Perret, inventore del cemento armato). Invece, a metà degli anni Sessanta, egli è già entrato nel mondo della moda quale stilista.

Ciò che stupisce dell’approccio di Rabanne a questo universo è la sua grande attenzione, prima ancora che all’abito, al corpo fisico, che egli definisce la nostra “tunica di carne”. Ad essa egli dedica molti appassionati studi di fisiognomica, affermando l’esistenza di corrispondenze profonde tra Anima e Corpo, sia sul piano psicologico che spirituale ed evolutivo.

Il culto del corpo in Rabanne significa rispetto della sua unicità e della sua funzione anche spirituale. La bellezza esteriore è un riflesso della più ampia unità tra spirito e materia: “perché il Corpo è già Anima”.

Il corpo, nella dimensione estetica ed esoterica di Rabanne, è infatti testimonianza di vite già vissute e tempio affollato di simboli ispiratori di ricerche precedenti, individuabili nei tratti del viso o del corpo. Manifestazioni, cioè, di esistenze precedenti, ovvero “vestiti già portati”,

L’amore profondo del Corpo (non in contraddizione con l’Anima, ma sua segreta esaltazione e memoria tra una trasmigrazione e la successiva) è alla base della ispirazione di Rabanne stilista, che fa proprie le parole di Ermete Trismegisto: “Se cominci con l’odiare il tuo corpo, ragazzo mio, non potrai mai amare te stesso”.

Quanta differenza con l’estetica di molti dei grandi della moda contemporanea!

Per Rabanne non esiste alcun dualismo tra la ricerca “dell’Io immutabile” e la sua esaltante affermazione nel mondo della moda. “E’ il nostro spirito che vestiamo, non il nostro corpo”, come riporta la storica francese del costume, Yvonne Deslandres (1923-1986).

In questo tipo di approccio, Paco contamina studi di architettura, storia dell’arte del passato e architettura sacra; il tutto alla luce dell’approfondimento di opere di pensatori quali il misterioso “Fulcanelli” (studioso del secolo scorso di simbolismo alchemico in architettura, mai identificato con sicurezza) e dell’architetto iniziatico Viollet-Leduc (1814-1879), noto soprattutto quale restauratore di Notre-Dame de Paris.

Tali studi hanno portato Rabanne a una inedita interpretazione e riproposizione della moda nella consapevolezza del ruolo simbolico e sociale degli “indumenti”, “… giacché i capricci della moda non sono mai casuali…”.

Lasciata la promettente carriera di architetto, Rabanne, giovanissimo, inizia a lavorare presso Balenciaga, dove la madre era prima sarta, quindi da Givenchy, Saint-Laurent, Dior .

Nel 1964 presenta la sua prima sfilata, da lui provocatoriamente descritta come “Dodici abiti sperimentali ed importabili confezionati con materiali moderni”. Ovviamente suscitando uno scandalo incredibile.

Paco Rabanne, fin dalla sua prima collezione, abbandona i materiali tradizionali interpretando la cifra di una intera epoca, gli anni Sessanta, nella quale “…l’architettura rinunciava alla pietra, la pittura alla tela e la scultura al marmo”.

Il tessuto, inventato dagli egizi ed immutabile da quindicimila anni, viene sostituito dalla plastica, dall’alluminio, dal rhodoit (lavorazione a piccoli dischi di plastica o metallici).

Il disegno tradizionale viene soppiantato da geometrie ispirate all’optical art e alla cinetic art; gli elementi decorativi classici furono ripudiati in favore di elementi rivoluzionari, come chiodi ed anelli di metallo.

La moda per Rabanne è rifiuto del conformismo uniformante; è libertà, fantasia, superamento dei limiti classici ed in generale delle mode stesse. Perché “la creazione è, e resterà, ininterrotta”.

Beatrice Pinotti

Laureata in legge, è studiosa di simbologia sacra. Vive a Mantova.

 

 

                                                          SULL’ORIGINE DEL CULTO DI SANTA LUCIA

 

A Verona, nell’Italia del Nord in generale, in Gallia e in Germania, nell’evo antico è attestato il culto di Diana, nonché delle Madri celtiche, probabilmente all’origine della venerazione di Santa Lucia. Testimoniando, così, ancora una volta, la continuità tra le antiche divinità e i santi cristiani. Le iscrizioni romane nel territorio veronese (circa 40) attestanti le dediche alle Madri superano quelle di Brescia (37) e queste, a loro volta, quelle che si ritrovano in un unico luogo delle Gallie. Il culto era quindi più radicato in Italia che Oltralpe, sebbene si trattasse di credenze celto-germaniche, giunte in Italia per via di infiltrazioni etniche. Nelle Gallie e in Italia si verificò un sincretismo tra i due culti. La venerazione delle Madri celtiche era associata alla protezione e ai doni per i bambini, o meglio ogni fedele che le invocava veniva visto come “fanciullo” da proteggere e nutrire: sia in senso materiale che spirituale.

È noto che antichi culti pre-cristiani furono assimilati dalla nuova religione. Il tramite di tale integrazione fu un particolare tipo di interpretazione, applicata alle Scritture ma non solo, detta Figurale, riscoperta da Eric Auerbach nel celeberrimo saggio Figura (1929). Ad esempio, Mosè era “Figura Christi” e la liberazione degli Ebrei dall’Egitto era figura della Redenzione. Il Figuralismo pone in rapporto un personaggio o evento preannunciandone un altro. In altri termini, il primo evento può essere interpretato come prefigurazione del secondo, e, il secondo come adempimento del primo.

Il culto delle Madri celtiche associato a quello di Diana rimanda ad una più remota origine, chiarita da uno studio poco noto di Enrico Campanile. Campanile citava un testo in Irlandese antico (V-X d.C.) recante un inno magico in cui l’orante si dichiarava “figlio delle Madri”:

Am ail for sleib sciathach

muire amor athar (?)

am rian ran go ruathar,

am mac mor na mathar.

Io sono roccia su montagna

difesa da scudi (?)

io sono mare splendido e impetuoso,

io sono gran figlio delle Madri.

Il testo irlandese trova un parallelo in un carme dell’Edda, detto Incantamento di Heimdallr. L’Edda è il testo poetico tradizionale dell’antico Nordico (la lingua germanica del Nord che include l’Islandese) e conserva gran parte di quel che si conosce della religione degli antichi Germani. Il testo recita:

nio em ec mœðra mogr.

nio em ec systra sonr.

Io sono figlio di nove madri,

io sono figlio di nove sorelle.

I testi, oscuri ai filologi, sono chiariti dalla comparazione con passaggi del Rg-Veda, testo sacro dell’India per eccellenza. Qui le Madri corrispondono a Sorelle, nel senso di Sorelle sulla strada della Salvezza. Si può già intuire una analogia con il tema cristiano della Salvezza legato alla intercessione dei Santi, compresa Santa Lucia. La somma delle scarne menzioni in Irlandese e Antico Nordico con i testi Vedici chiarisce il significato del culto delle Madri, facendolo così risalire ad una remotissima antichità indo-europea. I testi dell’India (Rg-Veda: 1,31,2; 3,55,7; 6,59,2) parlano di fedeli e della consacrazione di sacerdoti per il supremo culto del Fuoco e della Luce (ovvero Lucia /Luce). Nei testi indiani si invocano Due Madri, passando a Tre e quindi a Sette, per terminare con Nove: numeri di evidente significato mistico. Il numero Nove faceva sì che il fedele diventasse un tutt’uno con la Madre invocata, assicurando la salvezza completa l’invocante. Analogamente, il voto cristiano al Santo, quale intermediario di Salvezza, è quasi come entrare in unione mistica con il Santo stesso.

Beda il Venerabile (672/3-735), monaco inglese, collocato da Dante nel cielo del Sole fra i Grandi Teologi (Paradiso X, 131) ricordava (De temporum ratione, 15):

Angli incipiebant annum ab octavo calendarum Ianuarium die, ubi nunc natale Domini celebramus, et ipsam noctem nunc nobis sacrosanctam tunc gentili vocabulo modranicht, id est matrum noctem, appelabant, ob causam ut suspicamur ceremoniarum quas in ea pervigiles agebant.

Gli Angli iniziavano l’anno dall’ottavo giorno delle calende di gennaio, dove ora celebriamo il natale del Signore, e i gentili denominavano la stessa notte per noi sacrosanta, d’altra parte, con il termine modranicht, ovvero notte delle madri, per questa causa come sospettiamo vi erano cerimonie le quali venivano eseguite con le veglie.

Dalla testimonianza di Beda si nota il passaggio tra riti pre-cristiani e il culto di alcuni Santi variamente collocatio nel periodo del Natale, o poco prima, quando si festeggia ancor oggi Santa Lucia. Il dies natalis della Santa fu fissato definitivamente con la riforma del calendario (1582) di Gregorio XIII (1502-1585) al 13 dicembre. Fu, invece, Gregorio Magno (540-604), vissuto poco prima di Beda, a regolare il culto delle reliquie e dei Santi, favorendo così la trasformazione dei culti pagani in cristiani. In quest’ottica, il culto della Luce di Lucia presenterebbe una continuità di almeno settemila anni.

Bibliografia

Auerbach Eric, Figura, Archivum Romanicum 22, 1938, pp. 436-489.

Campanile Enrico, Sulla preistoria del culto delle matres celtogermaniche, in Studi di Cultura Celtica e Indoeuropea. Pisa, 1981, pp. 75-89.

Pietro Moretto

Pietro Moretto coltiva studi di antiche lingue e tradizioni dell’Eurasia.

      

                                                                        IL CULTO DI SANTA LUCIA A VERONA

 

La testimonianza più antica del culto di Santa Lucia a Verona risale all’anno 973, collegato al passaggio per Verona dell’Imperatore Ottone I nel 969/970 che avrebbe portato con sé le presunte reliquie della Santa. Il documento ricorda, inoltre, la presenza a Verona di un oratorio, al quale era preposto un certo sacerdote Sadalberto: “de oratorio Sanctae Luciae”. Probabilmente si trattava di Santa Lucia Intra, di ubicazione non chiara, in quanto il riferimento topografico si rifaceva genericamente alle mura di Gallieno. La presenza di tale edificio fa ritenere che il culto si fosse diffuso in epoca molto antica. Da recenti studi, è emerso che una altra chiesetta si trovava sopra il “clivio”, lungo la via Postumia, nella zona della attuale Santa Lucia Extra, appartenente ai frati di Santa Lucia Intra di Porta Palio. Qui essi avevano, nel XII secolo, un loro oratorio ed un convento. Sulla via Postumia, in prossimità della città, erano ubicati inoltre alcuni tempietti dedicati ai Lari e ai Mani, sulle rovine dei quali sorsero, forse, i luoghi dedicati alla Santa. Nel XIII secolo si registravano, dunque, due chiese dedicate alla Santa, denominate Santa Lucia Intra e Santa Lucia Extra.

Il territorio attorno alla città era suddiviso in Campanea Maior a destra dell’Adige, Campanea Minor a sinistra del fiume, Campaniola a Nord. La Campanea Maior era quella attraversata dalla via Postumia e su di essa esercitava il diritto di decima la comunità religiosa della parrocchia di Ognissanti, ubicata nell’attuale Corso Porta Palio. Questa, di circa sette conversi non consacrati, gestiva un “ospitale” all’interno della parrocchia stessa. Questa entrò ben presto in conflitto con la chiesa di Villafranca per la riscossione della decima, riconosciuta alla parrocchia di Ognissanti dal vescovo Norandino, nel 1220. La stessa comunità della parrocchia di Ognissanti amministrava le due chiese di Santa Lucia Intra ed Extra. In quest’ultima si trovava un romitorio. Il complesso di Santa Lucia Extra venne distrutto da Ezzellino da Romano verso il 1250. La comunità sopravvisse con difficoltà fino alla seconda metà del secolo XIV.

La diffusione del culto di Lucia si ebbe nel periodo di Cangrande della Scala (1291-1329). In questi anni avvenne la grazia di “Pasius Draperius de Ferabobus”, ricco proprietario terriero della parrocchia dei SS. Apostoli. Egli, colpito da cancrena all’arto inferiore sinistro nel 1308, temendo l’amputazione, implorò Santa Lucia, alla quale “era stata segata la gola”. Promise alla Santa che avrebbe ricostruito in suo onore la chiesa e il monastero di Santa Lucia Extra, dove si trovavano i resti del precedente complesso. Nel suo testamento, egli lasciò questi luoghi alle monache, con l’obbligo che l’anniversario della sua morte venisse ricordato offrendo il pranzo ai poveri. Draperio anticipò, così, l’azione caritatevole di Tommaso da Vico (1531), col quale nacque il “Papà del Gnoco”. La chiesa di Santa Lucia Extra, a seguito del miracolo, venne frequentata da devoti che portavano offerte a favore delle monache, le quali gestivano il complesso, mentre i monaci ne mantenevano la proprietà. Essendo tale situazione sfavorevole ai monaci, si ricorse all’arbitrato di Cangrande e del Vescovo, i quali sentenziarono che il complesso era proprietà dei monaci, pur essendo abitato dalle monache. Queste dovevano versare una quota fissa annuale per ogni monaco, con l’obbligo di celebrare solennemente il 13 dicembre. Estintasi la comunità dei monaci di Santa Lucia Intra, tutto passò alle monache di Santa Lucia Extra, le quali presero possesso anche di Santa Lucia Intra a causa degli assedi provocati dalle guerre contro i Visconti, Venezia e Massimiliano d’Asburgo. Esse estesero, in tal modo, la loro influenza sulla città, portandovi contestualmente le spoglie di Draperio. Santa Lucia Extra sarà risparmiata dalla “spianata” veneziana del 1517/18, finalizzata alla costruzione delle mura, in quanto fuori città. I beni e gli edifici delle monache divennero in seguito proprietà demaniale, per decreto napoleonico nel 1806, e adibiti a caserma. Da queste vicende trassero origine il Palio di Verona e la festa di Santa Lucia.

Bibliografia

Cremonese Alessio, Nerina, Verona-Panorama storico, Edizioni di “Vita Veronese”, Verona, 1978.

Eliseo Peretti

Eliseo Peretti, si interessa di Storia delle Istituzioni rapportate alla cultura locale.

                                                           

 

                                                                  LA SCRITTURA LABIRINTICA DI NIETZSCHE

 

Il labirinto non finisce di stupirci: da secoli si manifesta in diversi settori della cultura e nelle modalità più disparate. Si può scoprire una sorprendente espressione del labirinto nella scrittura di Nietzsche, a partire da La gaia scienza e, soprattutto, da Così parlò Zarathustra. Il libro della tradizione, secondo Nietzsche, espone il sapere dell’Occidente, congelato e dogmatico: perciò è ormai una “bara”, un “sudario”, nel quale “l’esistenza è imbalsamata” e le conoscenze sono “impagliate”. Il libro e la sua scrittura non sono al servizio della vita e della salute, ma vengono utilizzati per imbrigliare e conservare il passato, per mummificare il sapere, rinunciando alla speranza e servendo la morte. Più volte Nietzsche sostiene che il filosofo, lo scienziato, il moralista, con il loro linguaggio razionale, hanno espresso concetti-feticci (scienza, idea, valore, Dio) con i quali hanno ingabbiato la vita e l’uomo. Da qua sorge la necessità di un’opera distruttiva, correlata ad una forte esigenza di rinnovamento: un’esplosione che sia rigeneratrice. Infatti, Nietzsche, assumendo questo compito, dice di sé: “io sono dinamite”. Il libro che “sappia condurci oltre tutti i libri”, deve avere una scrittura nuova perché nuovo è il suo contenuto, che non può essere espresso nella forma concettuale e sistematica del trattato o del saggio. Perciò, la scrittura nietzschiana è fitta di allusioni, immagini, aforismi, metafore, enigmi ed esige un nuovo lettore che non sia parte del “gregge”, che non sia deferente davanti al passato o all’aldilà. Egli deve rinnovarsi e trasformarsi in un “mostro di coraggio e curiosità”, per inoltrarsi nel testo senza maestri e compagni. Zarathustra, infatti, invita i discepoli ad andare soli e a non fidarsi neanche del maestro. Il nuovo lettore, diventato “un avventuriero ed esploratore”, si può addentrare nel testo-labirinto per esplorarlo, prima sollevando “il sospetto”, l’arma della criticità, e poi decifrando e interpretando ciò che gli si presenta. Si tratta di cercare non un solo percorso, perché non c’è un solo senso, ma più sensi, che esigono di essere liberati. Le immagini, le allegorie, i simboli, consegnati al lettore nella loro accattivante oscurità, si uniscono e si accavallano con imperativi e anatemi, componendo un disegno filosofico. Tale disegno sarà intellegibile interamente solo quando con impegno sarà completato l’iter, in un orizzonte problematico e critico, dopo aver percorso le molteplici vie che, di volta in volta, si presentano all’attenta e curiosa attività esploratrice del lettore. Questi, affrancato dalla lettura passiva, dall’ossequio e dall’inerzia, è spinto ad attivarsi in un gioco che si rivela liberatorio. Infatti, solamente accettando il labirinto fino in fondo, il lettore-esploratore si accorge di trasformarsi e di rigenerarsi: interrogando e decodificando il testo ad ogni passo, ne scopre il significato, anzi i significati, con il risultato di liberare la vita e, nello stesso tempo, se stesso. La completa accettazione di questo ruolo fa emergere in lui tutte le proprie potenzialità nascoste: la curiosità, il rigetto di ogni costrizione, il desiderio di creatività. In conclusione, è riconoscibile nella scrittura nietzschiana una struttura labirintica che, lungi dall’essere costrittiva, agisce in senso vitalistico e liberatorio, coerente con tutta la filosofia dell’Autore.

Mirella Leone

 

                                                             LE CAMPANE DALL’ANTICHITA’ AD OGGI

 

Una storia antichissima e piuttosto misteriosa è legata alle campane e al loro uso.

Sicuramente le loro sonorità sono legate originariamente a rituali magici o religiosi.

Il materiale che più caratterizza il suono delle campane è il bronzo; i suoi componenti, rame e stagno, furono sicuramente fusi attorno al 5000-4000 a.C.

Secondo recenti ritrovamenti archeologici effettuati in diverse zone dell’Asia occidentale, sembra che la realizzazione dei “primi bronzi sonanti” fosse opera di antiche popolazioni armene.

Un campanello risalente al I millennio a.C. fu trovato vicino a Babilonia. Sir Austen Henry Layard (1817-1894), scopritore di Ninive, trovò durante gli scavi a Nimrud otto campanelli fusi in un calderone di rame.

Lo scrittore ebreo-romano Giuseppe Flavio (I sec. d.C.) riferisce, nelle sue Antichità giudaiche, che “il Re Salomone (974-937 a. C.) teneva numerose campane d’oro sul tetto del suo tempio per allontanare gli uccelli”.

In alcune tombe pre-incaiche peruviane sono stati trovati campanelli in rame da slitta risalenti a prima del 500 a.C.

Notizie sulla presenza di campane in Egitto, India, Cina e Giappone stimolano ulteriormente la ricerca sulla loro origine. L’estremo Oriente possiede una storia millenaria per quanto riguarda l’arte di fondere campane. Durante la dinastia Shang (XVI-XI sec. a.C.) venivano realizzate campane montate in carillon. In una provincia della Cina meridionale è stato trovato un insieme di campane così grande da occupare l’intero palcoscenico di una moderna sala da concerto. Questo sistema risale al V sec. a.C. ed è composto da 65 campane ognuna delle quali è in grado di produrre due suoni diversi.

Attraversare la storia delle campane porta ad immergersi in luoghi lontani e mistici come i monasteri tibetani, vicini al cielo e avvolti da miti e leggende sulla creazione del mondo.

Le campane tibetane sono tipiche campane statiche o a terra.

A differenza delle nostre campane tradizionali, quella tibetana non viene appesa capovolta e il batacchio non è interno e a pendolo, ma manuale ed esterno. Viene suonata colpendola o sfregandola con il percussore sul bordo esterno.

Il suono di questo strumento corrisponde ad una lunga vibrazione poliarmonica, molto usata a scopo religioso per riti e meditazioni. A seconda della foggia vi sono diversi modelli.

Ne esistono anche di incise con decorazioni (conosciute generalmente come nepalesi). Le campane migliori presentano un timbro che va da uno a tre “sovratoni”.

Solitamente il suono base è quello determinato dalla percussione, mentre i sovratoni emergono durante lo sfregamento circolare.

Per quanto attiene agli strumenti di percussione, vengono utilizzati dei bastoni cilindrici, rivestiti solitamente di pelle di camoscio. Vengono inoltre utilizzati dei percussori come quelli che si utilizzano per i gong, con il manico in legno o legno di bambù, con la testa rivestita di lana cotta.

Nei rituali di preghiera induista, il fedele tocca una campanella per avvisare la divinità della sua presenza e all’uscita ripete il gesto per far sapere che sta uscendo dal tempio.

Sacerdoti e danzatrici usavano legarsi dei campanelli alle caviglie durante le sacre cerimonie nei templi.

Gli antichi greci usavano appendere all’interno dei loro scudi alcune campanelle affinchè in battaglia tintinnassero in onore degli dei.

Non per dissacrazione ma per continuare il lungo percorso nella storia delle campane è giusto menzionare il suono di campanelle o campanacci nei pascoli estivi. L’uso di questi strumenti è legato alla visione arcaica agreste con profonde radici nella storia e nella tradizione. Nella penisola italiana si possono distinguere fino a 50 tipi di campanacci e quindi altrettante sonorità diverse.

Le differenze, anche di poco, tra i campanacci bastano al pastore per riconoscere “ad orecchio” ciascuno dei suoi animali. Ciò lo aiuta ad individuare il bestiame quando vuole radunare la mandria, oppure nella ricerca di un animale smarrito. Il suono dei campanacci è importante anche per gli stessi animali: quando un capo si allontana dagli altri è sempre in grado di localizzare il resto della mandria proprio grazie allo scampanio delle altre vacche. I campanacci generalmente sono in ferro battuto. Se la campana è frutto di una fusione in bronzo è detta più propriamente “bronza”. In Valdidentro (provincia di Sondrio) si festeggia in settembre il “Dì de la bronza”, ovvero il giorno del campanaccio, che celebra il rientro degli animali in paese dopo l’alpeggio estivo.

Nelle culture del Centro e Sudamerica, prima delle repressioni culturali e religiose e lo sterminio di intere tribù, la musica era presente in tutte le cerimonie e in tutti i riti e scandiva il tempo quotidiano. Lo sciamano cantava al ritmo dei sonagli durante i riti di guarigione. Era il primo e più comune suono; all’interno di un contenitore vi erano degli oggetti vari che toccandosi fra di loro producevano un tintinnio.

Come non rammentare a questo punto il, seppur lugubre, tocco della campanella che accompagnava il passo dei monatti di manzoniana memoria. Al servizio del tribunale di Sanità, venivano reclutati tra uomini che avevano superato il contagio; vestivano vistosi abiti rossi, che li rendevano immediatamente riconoscibili, e portavano al piede un campanello per segnalare la loro presenza.

In occidente le prime documentazioni inerenti campane e campanelli risalgono a circa il VII sec. a. C. Sono infatti di quest’epoca i campanelli bronzei trovati nelle vicinanze di Sparta e conservati nel museo di quella città.

Molte altre notizie derivano da fonti letterarie. Da Eschilo (525-456 a.C.) sappiamo dell’esistenza di piccole campane. Vi sono citazioni in merito di campane anche da Euripide, Tucidide, Aristofane e altri, sino ad arrivare a Ovidio (43 a.C.-17 d.C.).

Lo storico greco romano Cassio Dione (III sec. d.C.) dice nella sua Storia Romana che l’imperatore Ottaviano Augusto nell’anno 22 a.C. fece attaccare una campana alla statua di Giove tonante sul Campidoglio.

In Grecia il termine campana lo si conosceva come còdon, a Roma s’impose il vocabolo onomatopeico tintinnabulum.

Il termine campana nasce nell’alto medioevo, quando il vescovo di Nola (409-431) avrebbe favorito la produzione per uso liturgico dei vasa campana (vasi della Campania). La qualità del bronzo che si produceva in Campania era nota, del resto, fin dai tempi di Plinio il vecchio (23-79 d.C.).

Se in epoche antiche l’uso della campana o campanella era conosciuto, fu nel Medio Evo che se ne rivoluzionò sia l’aspetto che la funzione.

La foggia a “ciotola” o a “tubo” dei tintinnabula evolve gradualmente verso la caratteristica forma a calice della campana moderna. La campana diviene strumento di comunicazione dapprima con finalità religiose, poi assolvendo compiti civili e quindi di scansione del tempo.

A questo proposito, in piazza delle Erbe a Verona, fu installato, sulla torre del Gardello, il primo orologio a rintocco d’Europa.

Sempre a Verona, una campana posizionata sulla Torre dei Lamberti, chiamata Rengo o Arengo, sul finire del 1200 con il suo rintocco segnava le adunanze del Consiglio Comunale e chiamava la cittadinanza alle armi in caso di attacchi. Una seconda, la Marangona, fu installata per segnalare gli incendi, ma servì soprattutto a scandire l’inizio ed il termine della giornata lavorativa degli artigiani.

La campana nella cultura occidentale diviene simbolo della cristianità. Oltre a radunare i fedeli, è destinata ad allontanare il maligno e attirare l’attenzione e la protezione di Dio.

Durante il Medioevo si sviluppa inoltre l’usanza di apporre simboli ed iscrizioni in rilievo e di usare le campane anche per funzioni di raduno e di incitamento alla battaglia.

Nell’alto Medioevo, erano i monaci a costruire e suonare le campane ed erano custodi della teoria musicale. Nel 506, Fernando di Cartagine consigliò che i rintocchi delle campane fossero differenziati a seconda delle funzioni che annunciavano; più tardi, il concilio di Aquisgrana avrebbe sancito che il numero dei bronzi sarebbe dovuto essere proporzionale all’importanza dell’edificio che li ospitava. Verso il Mille, nacque la professione del fonditore; questi proveniva solitamente dalle zone dell’Europa centrale. A bordo di un carro percorreva le strade prestando la sua opera ove richiesto. Approntava la sua fonderia in uno spazio aperto, nei pressi del campanile. A quel tempo non si parlava di concerti di campane. Ogni chiesa aveva due o tre bronzi che non richiedevano accordatura e ognuno suonava in specifiche circostanze.

Dopo la nascita della teoria musicale, monaci svizzeri e toscani, sapendo che variando l’altezza o il diametro della campana il tono di questa cresceva o calava, riuscirono a realizzare insiemi di campane in scala minore.

All’epoca, tutte le composizioni erano monodiche, ossia composte da una sola linea di canto. Fu alle soglie del 1200 che a Notre Dame, in Francia, si iniziò a sperimentare degli accordi: un insieme di note che, suonate contemporaneamente, producevano un gradevole effetto di consonanza.

La ricerca di un suono è spesso determinato dalla cultura musicale di una regione o di una nazione.

Nell’area mitteleuropea (Germania, Svizzera, Austria, Francia, Belgio, Olanda) si è cercata la migliore qualità del suono con persone competenti sulla progettazione delle campane e concerti in grado di produrre svariati accordi musicali. Accanto alle campane tradizionali, quasi ovunque montate a slancio, vi sono i carillon, vere e proprie orchestre costituite da alcune decine di campane ferme percosse da martelli esterni che iniziarono a comparire nelle Fiandre nei secoli XV e XVI. Nei paesi dell’Est (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, ecc.), come anche in Scandinavia, le campane suonano prevalentemente a slancio, senza ricerca sulla migliore qualità dei bronzi e nemmeno di accordi musicali.

Per andare incontro alle esigenze della liturgia, in altre regioni europee si sviluppò una diversificazione dei segnali. Si idearono i sistemi di suono a rotazione completa, che si diffusero in tutto il Regno Unito e presero il nome di sistema inglese o Change Ringing (sorto nel sec. XVIII).

Una classificazione primaria deve essere fatta con i criteri seguenti: campane fisse e campane in movimento. Le campane in movimento vengono a loro volta suddivise in campane a battaglio volante e a battaglio cadente.

L’insieme delle campane a rotazione completa include sia le campane a battaglio volante che a battaglio cadente.

Nell’Italia settentrionale, dove ci sono importanti tradizioni legate alla ricca pluralità storico-culturale, esiste il sistema alla bolognese (sec. XVI), il sistema ambrosiano (sec. XVIII) . A Verona i campanari della chiesa di San Giorgio in Braida (forse per contatti avuti da una foresteria dove trovavano ospitalità persone provenienti dall’Inghilterra) modificarono il sistema ambrosiano, dove la rotazione aveva un fermo, cambiando i contrappesi e creando il sistema alla veronese (sec.XVIII).

A Verona, presso San Zeno Maggiore è inoltre custodita una campana ottagonale che, secondo gli esperti, è una delle più antiche fra quelle colate in fusione ed è databile tra il VII ed il IX secolo.

Laura Zanolli

Laura Zanolli è artista dai molti interessi, dalla pittura alla scrittura. Vive e lavora a Trento

                                      

                                                             SANTA LUCIA FUORI ITALIA E IN SCANDINAVIA IN PARTICOLARE

 

Fuori dall’Italia il culto e la tradizione di Santa Lucia hanno conosciuto grande fortuna, in particolare in Svezia. È uso, qui, celebrare il 13 Dicembre la festa di Santa Lucia, ovvero la festa delle luci. In tale data si svolge una processione, di ragazze o bambine in veste bianca e cintura rossa, guidata da una di esse. Costei porta una candela accesa in mano e una corona di sette candele con una ulteriore corona di foglie verdi sul capo (rimando alla vita che riprende). La tradizione è molto sentita in Svezia. Tutti gli anni viene incoronata in ogni città la fanciulla che incarna al meglio Lucia. La processione è accompagnata da fanciulli vestiti di tunica bianca con copricapo conico bianco ricoperto di stelle dorate. Questi sono detti Tomtenissar (oggi interpretati come elfi di Santa Lucia), creature tipiche del folklore scandinavo, spiriti degli antenati legati ai tumuli rituali, costruiti dall’uomo, frequenti nel paesaggio svedese e danese. Nella tradizione più antica i Nissar erano spiriti delle acque che sospendevano i fenomeni naturali ed incantavano i viventi con la loro musica. Si dice, inoltre, che essi fermassero l’acqua delle cascate quasi cristallizzandola nel suo dinamismo. Erano associati anche ai riti della luce di dicembre. La tradizione svedese delle luci/Lucia passò indenne attraverso la Svezia luterana, sebbene fino al 1760, periodo del Preromanticismo, non fosse molto vitale. Dopo tale data la festa divenne molto sentita. In Svezia l’origine della ricorrenza, il 13 Dicembre, è collegata ad un rito pre-cristiano: il Dísablót (rito del Dísa o delle Divinità). Esso si svolgeva in prossimità dell’Equinozio d’Inverno (nella Scandinavia medievale vetrnætr o tempo dell’inverno). La ricorrenza del rito delle luci era, nell’antichità germanica, una preparazione allo Jólnar (in antico Islandese) corrispondente al Natale cristiano. Questi rituali culminavano in sacrifici che si svolgevano nel grande tempio pagano vicino all’attuale Uppsala. Analoghe cerimonie erano praticate nella Sassonia e nello SchleswigHolstein (costituenti l’allora Ducato di Sassonia e oggi parte della Germania) dove si conservò il paganesimo fino al XII secolo. Questo territorio fu controllato per breve tempo da Eiríkr inn sigrsæli (Enrico il Vittorioso, 945-995) re pagano di Svezia. Si noti che l’imperatore Ottone I il Grande (912-973), connesso a Santa Lucia per le vicende delle reliquie, fu Duca dei Sassoni. In Danimarca la festa non ebbe l’importanza assunta in Svezia, in quanto lo Jutland fu cristianizzato prima (965). È da notare che l’Islanda conserva poche feste legate alla luce/Lucia, in quanto divenne cristiana nel 999. Probabilmente l’enfasi sul culto di Santa Lucia venne usata per convertire i popoli germanici rimasti pagani.

La tradizione svedese di Santa Lucia può trovare corrispondenza in Iran con la festa della notte più lunga dell’anno, lo Shab-e Yalda (Yalda della Notte, ovvero il Natale della rinascita della luce). Questo è, forse, etimologicamente legato allo Jólnar dei Germani antichi e potrebbe trattarsi di un antichissimo rituale indoeuropeo, testimoniando così una continuità culturale di circa 7.000 anni, strutturatasi attorno al culto di Lucia/luce. In Iran, durante la notte del 20-21 Dicembre, corrispondente al nostro 13 Dicembre ricalcolato di anno in anno sull’esatto momento astronomico, si riuniscono a tutt’oggi gli amici di famiglia per cenare durante la notte. Si consumano frutti rossi, prevalentemente melagrane, che ricordano la fascia rossa portata dalla fanciulla/Lucia in Svezia. Il colore rimanda al significato vitale del sangue e della vita che rinasce. Durante la festa si leggono opere di poesia, in particolare del poeta Hafez (1315 circa-1390). Spesso si pratica la bibliomanzia (divinazione aprendo il libro a caso) usando proprio il Diwan di Hafez, l’opera più celebre del Vate persiano.

Eliseo Peretti/ Pietro Moretto

Eliseo Peretti, si interessa di Storia delle Istituzioni rapportate alla cultura locale, nonché delle relazioni tra Vicino Oriente Antico e Medievale con l’Europa.

Pietro Moretto coltiva studi di antiche lingue e tradizioni dell’Eurasia.

                                                                       IL CINEMA INDIANO E ILMAHABHARATA

 

Il cinema indiano presenta molte realizzazioni ispirate al Mahabharata. Interessante è un adattamento indo-tedesco, dai pochi apporti britannici, Prapancha Pash/Schicksalswürfel (1929) per opera dei registi e sceneggiatori Franz Osten e Niranjan Pal. Il film fa parte di una trilogia, degli stessi autori, iniziata con Prem Sanyas/Die Leuchte Asiens (1925) e proseguita da Shiraz/Das Grabmal einer großen Liebe. Tutti realizzati con maestranze indiane.

Il Mahabharata è stato oggetto di cure amorevoli da parte dei cineasti indiani. Si è arrivati a proporre anche una versione televisiva, per opera di Ravi Chopra (1946-2014), in 94 episodi girati tra il 1988 e il 1990.

Per il cinema vero e proprio si ebbe Mahabharat (1965) di Babubhai Mistry (1918-2010), regista cimentatosi spesso in film presi dalla tradizione mitica sanscrito-vedica.

Il Mahabharata è, dunque, il grande racconto delle guerre dei Bharata, antica stirpe guerriera dell’India settentrionale. Una guerra, dunque, tra due famiglie principesche discendenti da Bharata, figlio di Sukuntala, ed eroe eponimo dell’India, anticamente chiamata Bharatavarsa, continente dei Bharata.

La ri-fusione dei materiali che compongono questo vastissimo corpus di letteratura anonima si svolse certamente in un periodo lungo molti secoli. Il processo era, comunque, già in fase avanzata tra l’VIII e il VI secolo a.C.

Il poema, che ammonta in totale a 110.000 lunghissime strofe, è attribuito ad uno dei personaggi dello stesso, il veggente Vyasa, che lo avrebbe dettato al dio Ganesh. A ciò accenna anche l’iconografia tradizionale di Ganesh (il dio elefante, dalla lunga memoria) rappresentato con la zanna sinistra spezzata. Egli, per l’ansia di fissare in scrittura tale opera, ruppe il calamo, spezzandosi quindi una zanna per sostituirlo e continuare l’opera di scrittura. Il nome di Vyasa impersona la tradizione brahminica.

La versione estesa del Mahabharata viene divisa in 100 sezioni sacre o “Parvan”, raggruppate a loro volta in 18 Libri Maggiori. La trasmissione orale del poema ha dato adito a numerosissime varianti.

Nella narrazione indiana si sono ravvisate similitudini con altre tradizioni epiche, quali la saga scandinava riportata da Saxo Grammaticus (1150-1220) nelle Gesta Danorum. Egualmente, vi sono somiglianze con la tradizione greca della guerra che fa da sfondo alla tragedia di Eschilo, I Sette contro Tebe.

Il tema dell’alternanza tra Bene e Male, presente nel Mahabharata, si ritrova nel coevo Iran zoroastriano nella figura del dio Ahura Mazda. I tratti specifici del Krishna indiano, manifestazione del dio Vishnu e figura precipua di tale epica, richiamano radicati temi di tradizione indoeuropea, quali i “proto-romani” Romolo e Remo. Krishna e il fratello (Bala)Rama sono infatti allevati in segreto e, divenuti adulti, uccidono lo zio, come i loro omologhi romani; e, come loro, fondano pure una città. La guerra dei Bharata vede lo scontro dei Kaurava opposti ai cinque cugini, gli spodestati Pandava. I Pandava, esiliati, tornarono dal re kaurava, Duryodhana, per ottenere terra e regno. Il re rifiutò, cosicché i Pandava presero le armi. La guerra durò molti anni e numerosi popoli indiani prestarono aiuto ai Pandava. Lo scontro finale si ebbe con la battaglia di Kurukshetra, durata 18 giorni, dove morirono tutti i Kaurava. Non avendo questi riconosciuto la natura divina di Krishna, il dio si era schierato con i Pandava, a lui devoti. Sopraffatto il re Duryodhana, gli successe il pandava Yudhisthira. Quest’ultimo decise poi di abdicare in favore del figlio Arjuna, ritirandosi a vita ascetica con i fratelli. Il punto più alto del Mahabharata è considerato la Bhagavad-gita (Canto del Beato), un dialogo tra l’eroe Arjuna e il dio Krishna in veste di suo auriga e arciere. Questo dialogo, misto di insegnamenti e di esortazioni, è detto “Il Vangelo dell’India” per il notevole prestigio attribuitogli in ogni periodo della storia indiana. Anche questo oggetto di infiniti commenti e numerosi film.

Pietro Moretto

 Pietro Moretto coltiva studi di antiche lingue e tradizioni dell’Eurasia.

                                                               

 

                                                      LE ORIGINI DELLA MASCHERA DI ARLECCHINO

 

Quando pensiamo ad Arlecchino immaginiamo il servo sciocco, talvolta impacciato, vestito con un abito dai mille colori e con una maschera nera sul volto, impegnato a prendersi gioco dei suoi padroni (come nel Servitore di due padroni di Goldoni) o coinvolto in truffe ai danni di qualche malcapitato credulone per ottenere rapidi e facili guadagni economici (come nel famoso episodio della Famiglia dell’antiquario). Un personaggio, quindi, al tempo stesso sciocco e astuto, particolarmente abile ad improvvisare e ad adattarsi alle situazioni grazie a parole appropriate, lazzi, arguzie e battute e in grado di suscitare il riso anche con il semplice ingresso in scena.

In realtà, come numerosi studi condotti nel corso del Novecento hanno dimostrato, la maschera di Arlecchino ha origine dalla contaminazione tra i personaggi diabolico-farseschi della tradizione popolare francese e nordeuropea in generale e la tradizione dello zanni, che indossava una maschera nera e una tunica larga tipica del contadino veneto-bergamasco. Se osserviamo Arlecchino più da vicino, infatti, ci rendiamo conto che il suo è il volto di un essere maligno che riflette il demonio ormai stilizzato. Paolo Toschi, in Le origini del teatro italiano del 1955, indicava le origini demoniache di Arlecchino e della sua famiglia, lo Zanni e Pulcinella, e a sostegno di questa tesi presentava alcuni elementi tra cui: il volto nero, i lineamenti inumani o addirittura bestiali, l’abito originariamente bianco (come il sudario dei morti o il lenzuolo degli spettri), la voce esile o in falsetto tipica delle creature dell’oltretomba, un’indole spesso crudele e dispettosa. Inoltre, ha avuto un ruolo importante anche la diffusione di miti e credenze nordiche, che si sovrapposero nell’alto medioevo alla tradizione greco-latina; lo spirito cattivo e nocivo dei morti che minacciava gli uomini, chiamato maska, veniva spesso indicato anche con il termine larva, usato anche per indicare un’effige che spaventa che si applicava al viso e che la gente chiamava mascara. La maschera, quindi, fu sempre considerata una presenza inquietante per la sua identificazione con il maligno e per il suo essere ceffo mostruoso, che con il tempo perse i suoi connotati più provocatori per assumere caratteri più stilizzati. Secondo il Nicolini, l’archetipo della maschera sarebbe da ritrovare nell’immagine della bocca dell’Inferno presente nelle sacre rappresentazioni medievali; veniva chiamata Hure de Herlequin e da qui uscivano masnade di diavoli a ricordo della leggenda di Herla King e della sua caccia selvaggia che fu alla base dell’origine demoniaca della maschera di Arlecchino.

La parentela di Arlecchino con il demoniaco era già nota ai tempi della Commedia dell’Arte e i molti studi che furono condotti nel corso del Novecento indagarono le origini del nome, il legame con la tradizione carnevalesca, l’appartenenza alla categoria delle maschere diaboliche. Molti, come il Toschi, si rifacevano alle leggende sassoni e bretoni del re Herla, alla caccia selvaggia, alle Hellequins (o Herlequins) – le donne che cavalcavano con la dea della morte Hel durante le cacce notturne, alle gesta degli harlequins teatrali, fino all’ingresso nella Commedia dell’Arte. Importante per tracciare la diffusione della maschera di Arlecchino nel teatro del ‘600 e in quello di Goldoni è la Vita di Arlecchino di Nicolini, il quale parte dalla più nota leggenda anglosassone tramandata dal De nugis di Walter Map, familiare di Enrico II Plantageneto. La forma definitiva di questa leggenda è quella proposta da un romanzo anonimo del 1601, dove Hellequin è un cavaliere che, combattendo gli infedeli, perde le sue proprietà e deve darsi alla macchia. Durante la fuga, commette molte nefandezze per le quali, una volta morto, sarà scaraventato all’Inferno dal Supremo Giudice. Tuttavia, grazie ai numerosi servigi compiuti in difesa della fede, la pena di Hellequin viene commutata in una condanna, a tempo determinato, a correre senza sosta per tutta la terra soffrendo e infliggendo nel suo errare ogni genere di calamità e travaglio. Secondo alcuni, poi, il passaggio a latitudini più basse avrebbe contribuito a far sovrapporre la leggenda di Hellequin a un rito di origine agricola e carnevalesca, legato al culto della fecondità vegetale: l’Hölle König/Helleking/Herla King re dell’inferno sarebbe diventato Herla-König/Herla King (da Herla Cyning, poi Erlking ed ErlKönig), re di elfi e ninfe che presiedevano alla vegetazione naturale. Del resto, anche le ipotesi relative all’origine del costume di Arlecchino sembrerebbero dare conferma di ciò. Alcuni sostengono che il costume sarebbe derivato dalle toppe multicolori che a poco a poco avrebbero ricoperto l’abito bianco dello zanni, un saio di tela grezza non tinta per ragioni di economia, che costituiva la tenuta da fatica del contadino italiano. Altri, invece, hanno visto i colori della primavera in un costume che sarebbe stato indossato da chi aveva il compito di guidare la processione attraverso i campi per far sbocciare fiori e frutti che avrebbero ricoperto la terra. Quindi, si potrebbe forse collegare Arlecchino con Dioniso, dio della vegetazione incolta e guida del tiaso, ispiratore della manìa e legato alle origini del teatro. Molti erano gli epiteti di Dioniso nell’antichità, ma si ricordino in questa sede soprattutto ‘strepitante’, infero e guida del corteo delle anime dei morti (psicopompo), che caratterizzavano anche l’Arlecchino primitivo delle origini.

Il nome rivela l’origine non italiana della maschera (la sua più antica attestazione si trova nella Commedia dantesca: in Inf. XXI, 118-123 viene nominato il diavolo Alichino, il più turbolento tra i diavoli che tormentano i barattieri e capofila della turba guidata da Barbariccia). Oltre al nome, anche alcuni tratti dell’immagine arcaica di Arlecchino consentono di identificarne l’origine demoniaca. Tra questi si devono ricordare: a) il grugno della maschera primitiva, pieno di peli e con un bozzo rosso sulla fronte, risultato dal taglio di due corna satiresche; b) la voce in falsetto, di cui il demonio si serve per imitare la voce dei defunti; c) il passo saltellante, che conserva l’ictus della danza macabra; d) la sessualita’ primordiale e oscena, che ne fa un molestatore di fanciulle; e) il batocio, un bastone sostituto della verga dionisiaca usato per minacciare o per portarsi il cibo alla bocca, che riecheggia nel cognome di Arlecchino, Battocchio; f) l’uso di gesti ed espressioni immonde (calarsi le brache in scena, emettere peti, eseguire lazzi triviali o nutrirsi con ingordigia e smodatezza). Arlecchino, dunque, è un personaggio diretto discendente dello Zanni, che rimane il più fedele allo spirito originario della maschera demoniaca, come dimostrano la sua condotta scenica e le sue caratteristiche fisiche.

Nonostante la riforma del teatro operata da Goldoni, molti sono i recuperi moderni del personaggio, nel nome così come nelle sue caratteristiche più distintive. Basti pensare a Harley Quinn, il personaggio dei fumetti spalla di Joker e nemica di Batman, il cui costume è ispirato a quello di Arlecchino; oppure ad Harlequin, il titolo scelto dai Genesis per un brano dell’album Nursery Crime del 1971. Da ricordare anche l’Harlequin Football club, una squadra di rugby che milita nel massimo campionato inglese di rugby.

Tra tutte le riprese moderne, tuttavia, la più rilevante è il personaggio di Harley Quin, il detective meno conosciuto di Agatha Christie, insieme con il compagno Satterthwaite e Parker Pyne. E’ protagonista della raccolta di racconti gialli Il misterioso signor Quin, pubblicati nel 1930, alcuni dei quali recanti il nome di Arlecchino persino nel titolo (cfr. L’Arlecchino morto, in cui la maschera di Arlecchino sembra addirittura sdoppiarsi, e Il sentiero di Arlecchino). Oltre a questa raccolta, il signor Quin è protagonista anche di uno dei racconti contenuti in Tre topolini ciechi e altre storie e del racconto Il servizio da tè Arlecchino. È un personaggio legato ad Arlecchino, ma dal carattere molto diverso. Di lui si sa pochissimo: è a metà strada tra una persona e un’entità metafisica. Fisicamente, si presenta alto, bruno e dalla pelle olivastra; spesso viene descritto come un attore in scena impegnato a recitare la sua parte, mentre strani giochi di luce lo rendono simile ad Arlecchino. Nel racconto E’ arrivato il signor Quin, osservandolo si ha l’impressione che sia vestito di tutte le sfumature dell’arcobaleno per effetto di alcuni vetri colorati; inoltre, il riflesso della luce, solitamente il fuoco nel camino, crea un effetto per cui l’uomo sembra portare una maschera nera. La vera natura del signor Quin la si capisce forse solo nell’ultimo racconto, Il sentiero di Arlecchino, in cui non solo il personaggio recupera quel carattere magico e onirico che lo rende simile a un folletto, ma anche l’aspetto più oscuro e demoniaco che era stato proprio dell’Arlecchino delle origini.

Silvia Pachera

Silvia Pachera è dottoressa in Scienze dell’antichità e docente di Lingua e letteratura italiana e Storia presso il Liceo Artistico Statale di Verona

Bibliografia essenziale

Paolo Toschi, Le origini del teatro italiano, Bollati Boringhieri, 1999

Fausto Nicolini, Vita di Arlecchino, Istituto italiano per gli studi storici, 1993

Agatha Cristie, Il misterioso signor Quin e Tre topolini ciechi e altre storie, Oscar Mondadori, Mondadori, MI, 2003

 

 

                                                                         IL CULTO E LA DEVOZIONE PER SANTA LUCIA

 

La prima attestazione del culto di Santa Lucia è data da una iscrizione, ritrovata nel cimitero sotterraneo di San Giovanni a Siracusa. Il documento, in greco, risale all’inizio del V secolo d.C., e recita:“Euskia, la irreprensibile, vissuta buona e pura in Cristo per anni circa XXV, morì nella festa della mia S. Lucia, per la quale non vi è elogio condegno; (fu) cristiana, fedele, perfetta, grata al suo marito di molta gratitudine.”

Euskia sembra fosse nata nel 280-81 circa, forse orfana del padre a cinque anni, dal quale ereditò dei beni, essendo l’unica figlia. Pare avesse frequentato il ginnasio, fatto notevole per una donna: ella doveva essere, quindi, di grande nobiltà. Lei e la madre Eutichia, anziana ed emorroissa, speranzose nella grazia di un miracolo, si recarono a Catania sulla tomba di Santa Agata, morta il 5 febbraio del 251 (?), a causa delle persecuzioni dell’imperatore Decio. Di tale viaggio parla il Breviario Romano, Lectio IV, per il 13 dicembre. Non è chiaro se Agata sia apparsa in sogno o direttamente a Lucia. Le due donne poterono recarsi sulla tomba di Agata, in quanto, in virtù di un decreto dell’imperatore Marco Aurelio, era prevista la libertà di sepoltura per i defunti cristiani. Rientrate a Siracusa, Lucia distribuì le sue ricchezze e scelse una vita virginale, rinunciando volutamente ad un giovane patrizio pagano; egli non potendo stipulare il matrimonio, la denunciò al prefetto Pascasio, in forza dell’editto di Diocleziano (24 febbraio 303). Non si conosce il nome del pretendente, si sa, invece, che Lucia si era convertita al Cristianesimo da tre anni. Ciò viene ribadito negli Atti Greci, relativi al suo martirio, i quali la vogliono decapita in quanto nobile il 13 dicembre del 304. Ne parlano anche gli Atti Latini, meno attendibili, in quanto meno antichi di quelli Greci, nonché il Martirologio e il Breviario Romano: testi posteriori di almeno un secolo rispetto ai più antichi. Queste fonti la vogliono trafitta nella gola. Stando a Lattanzio (IV secolo), Lucia fu decapitata, in quanto previsto dalla legislazione romana per la classe nobiliare. Il giorno della morte di Lucia venne considerato da Lattanzio come dies natalis; di più, la sua fu una “bella morte” perché morì da nobile.

Ella fu deposta in un loculo delle catacombe di Siracusa, successivamente chiamate di Santa Lucia. Nel 1630, sulla sua tomba, venne eretta una cappella ottagonale, per esaltare la Santa, considerata protettrice della città. Secondo una versione, le sue reliquie furono portate, nel 1038, da Siracusa a Costantinopoli per volontà del generale bizantino Giorgio Maniace per sottrarle alla profanazione dei Saraceni. Quando i Crociati conquistarono Costantinopoli, nel 1204, furono portate, in parte, nel monastero di San Giorgio di Venezia, il resto fu posto, successivamente, nella chiesa di San Geremia, sempre a Venezia. Nel 1860, per volontà di papa Pio IX, anche il braccio fu ricomposto con le reliquie che si conservavano nella chiesa. Altre versioni, non affidabili, le vollero a Corfinio, nel Ducato longobardo di Spoleto, o a Metz, ma le reliquie più attendibili sembrano quelle di Venezia. Pare che le spoglie siano state trasportate a Metz dal vescovo Teodorico al seguito dell’imperatore sassone Ottone I. Il corteo imperiale diretto in Germania transitò per l’unica via di accesso al Nord dell’Europa, ovvero Verona, tra il 969/970. Qui deve essere iniziato il culto della Santa, diffusosi nell’Est e nel Nord dell’Europa. Il culto della Santa, legato alla vista e agli occhi, giungerebbe dal culto di Artemide, alla quale era dedicata l’isola di Ortigia a Siracusa. La dea era concepita quale vergine legata alla luce, come la Santa. Prima dell’uso del Calendario Gregoriano (1582), la festa di Santa Lucia del 13 dicembre cadeva quasi al Solstizio d’Inverno, il giorno più corto dell’anno, dopo il quale rinasceva la luce. Da qui il detto veronese legato a tale giorno:

Da Santa Lussia una ponta de ucia, da Nadal un passo de gal.

Eliseo Peretti

Eliseo Peretti, si interessa di Storia delle Istituzioni rapportate alla cultura locale, nonché delle relazioni tra Vicino Oriente Antico e Medievale ed Europa.

                                  

                                         DA BOLLYWOOD ALLA LETTERATURA SANSCRITA. ALCUNI LINEAMENTI.

 

India is the central link in a chain of regional civilizations that extend from Japan in the far north-east to Ireland in the far north-west. Between these two extremities the chain sags down southwards in a festoon that dips below the Equator in Indonesia.” (A.J. Toynbee)

Il cinema indiano, rappresentato principalmente da Bollywood, si è formato come cinema di trasposizione del mito e della letteratura classica in lingua sanscrita. Non deve stupire la volontà ostinata di perpetuare la tradizione anche con mezzi nuovi quale il cinema, dove risulta sorprendente la persistenza del motivo mitico. Il primo film indiano fu Raja Harishchandra, girato nel 1913, che si rifà a un episodio del Ramayana, opera del ciclo epico della mitologia indiana. Regista fu Dhundiraj Govind Phalke (1870-1944), considerato il padre del cinema indiano. Anche le altre letterature fiorite sul suolo dell’India furono profondamente influenzate da questa tematica.

Con l’espressione “letteratura sanscrita” si indicano i testi scritti in due lingue molto simili: il Sanscrito, appunto, e il Vedico, strettamente collegati tra loro. Il Vedico, più antico del Sanscrito, a sua volta, costituì la base della letteratura indiana.

Il mito, in tutte queste letterature, fu fondamentale. Esso permeava anche gli eventi storici, e ogni evento diventava mito. La narrazione mitica si impadroniva di ogni aspetto della vita sociale, compresi gli eventi storici. Ogni racconto reale venne, quindi, deformandosi per integrarsi nel mito esistente, fagocitando tutti gli eventi concreti. Tanto poco è attendibile la trasmissione storica scritta (i primi testi risalgono a circa il mille d.C.) tanto più lo è, in solidità, la tradizione dei testi letterari.

I primi testi mitico-letterari, trasmessi oralmente (tra cui il Rg-veda, testo sacro dell’India per antonomasia), trovarono forma scritta soltanto in epoca tarda. La fissità della tradizione testuale è dovuta al suo valore religioso e alla convinzione che il minimo errore nell’eseguirne la recitazione nel rituale rendesse nullo ogni sacrificio, attirando così il disordine cosmico sul mondo. Da questa ritualità trae origine anche il diritto romano con il suo rigido formalismo. L’esigenza di preservare i testi incorrotti diede luogo ad una grammatica accuratissima, rappresentata, tra i molti tentativi coevi o precedenti, dalle Aṣṭādhyāyī (Gli Otto Capitoli) di Pāṇini, dando vita, successivamente, a una ricchissima letteratura grammaticale. Le raffinate tecniche di analisi sviluppate in India diedero luogo nel XIX secolo, una volta conosciute in Europa, alla nascita di una nuova scienza, la linguistica.

Le tematiche della letteratura in Sanscrito e in Vedico si diffusero in tutta l’area dell’India attuale e del Pakistan, estendendosi fino a Giava, dove si formarono letterature fortemente sanscritizzate. Questo potere di irraggiamento sanscrito-vedico continua ancor oggi giungendo fino al Pakistan, all’Afghanistan, all’Indonesia, al Sud-est dell’Asia, e al Tibet in modo particolare. In misura minore influenzò anche le letterature della Cina e del Giappone. Vi fu anche un re-incontro con la letteratura persiana. Le testimonianze più antiche del Sanscrito e del Persiano (Rg-veda e Avesta) mostrano, infatti, una lingua e tematiche mitico-religiose molto simili, derivanti dalla comune origine indo-europea. Queste si ri-fusero durante il periodo Moghul in India, dinastia indo-persiana, sviluppando una ulteriore tradizione. Questa pure ripresa nella produzione cinematografica di Bollywood, nonché nelle cinematografie di gran parte dell’Asia.

Pietro Moretto

Pietro Moretto coltiva studi di antiche lingue e tradizioni dell’Eurasia.

 

 

ATTUALITA’ DEL MITO DELLA CAVERNA DI PLATONE

Il mito della caverna, esposto nel libro VII de La Repubblica di Platone, rivela la sua attualità in riferimento alla crisi morale e politica del nostro presente storico.

Immaginiamo in una caverna dei prigionieri incatenati che possono guardare solo la parete antistante in cui si riflettono le ombre di alcune statuette alle loro spalle. Il significato simbolico è facilmente intuibile: la caverna simboleggia il nostro mondo, i prigionieri rappresentano tutti gli uomini, e le catene il legame con il mondo sensibile. I prigionieri sono immersi nella falsa sapienza perché scambiano per verità ciò che è solo ombra, come la massa odierna condizionata dai mass-media, che non usa la ragione. Immaginiamo che uno dei prigionieri venga liberato: andrebbe dal buio alla luce, dal mondo sottoterra, inferiore, a quello superiore, incorporeo, intellegibile, dalla falsa sapienza alla conoscenza della verità. Girandosi, si accorgerebbe che la sua conoscenza era fatta di immagini e che le statuette sono la realtà. Alla luce, poi scoprirebbe che le statuette sono copie degli oggetti reali che simboleggiano le idee matematiche, base della matematica, e le idee-valori, base della filosofia. L’uomo libero, dopo avere contemplato la vera realtà, cioè matematica e filosofia, arriva alla contemplazione del sole, l’idea del Bene, “causa di tutto ciò che è retto e bello” che rende possibile la scienza e che, perciò, è l’apice teoretico; è l’apice etico perché sapere il Bene, per Platone, comporta l’agire bene, nel privato e nel pubblico, cioè nel governo dello Stato; è anche l’apice pedagogico, della formazione dell’uomo libero, il filosofo. Questi prova pietà per i compagni, ma trova effimeri gli onori riservati a coloro che avevano memorizzato le ombre e che sapevano riconoscerle, ovvero i sofisti, i quali, come certi intellettuali di oggi, ricevevano onori perché conformavano il loro sapere all’opinione della massa. Nel VI libro, Platone aveva trattato il rapporto fra i sofisti e“i più”, la massa, che aveva denominato dispregiativamente il bestione. Emerge, come nel nostro presente, l’appiattimento della cultura della massa da parte dei falsi intellettuali che, volendo compiacere il bestione, si attengono a ciò che gli piace,” chiamando buono ciò che lo rallegra e cattivo ciò che lo affligge”. La massa non è benevola con chi non la compiace: il prigioniero liberato, se scendesse nella caverna, sarebbe oggetto di riso da parte dei prigionieri e se tentasse di liberarli, di condurli verso la verità, potrebbe essere ucciso. Platone si riferisce a Socrate, mentre noi riconosciamo i rischi dell’intellettuale o di chi va controcorrente e denuncia il carattere relativo o falso dell’opinione. Nonostante i pericoli, bisogna costringere il filosofo a ridiscendere nella caverna perché il fine del suo percorso formativo è ”curare e custodire gli altri “.

Fra individuo e Stato, tema discusso poi per secoli, lo Stato per Platone ha la precedenza perché non realizza il bene di un solo elemento, ma di tutti. Coloro che conoscono la verità non identificano il Bene negli onori, nelle ricchezze, nel potere. Questo loro disinteresse è la migliore garanzia e, perciò, a loro spetta il governo, anche se non vogliono. In conclusione, di fronte alla crisi del nostro presente storico, accogliamo i messaggi polivalenti di questo mito: possiamo riconoscere, nella nostra società, una massa incatenata dai condizionamenti, immersa nella falsa conoscenza dei mass-media, e tendente alla omologazione; smascherare chi si atteggia ad intellettuale per avere il favore della massa, ne segue le tendenze e porge ciò che le aggrada, non la verità. Anche oggi quelli che coltivano non il proprio interesse, ma il Bene, non vogliono onori, ricchezze, potere: costoro governerebbero secondo ragione, per il Bene di tutti. Infine, il messaggio culminante: chi ha raggiunto un livello alto del sapere deve ridiscendere nella caverna, mettere a disposizione della comunità il proprio sapere e la propria etica. E’ utopia?

Platone risponde: “l’amministrazione dello stato sarà una realtà e non un sogno.”.

Allora, oggi possiamo essere ottimisti e far sì che un governo dei buoni e dei giusti sia un progetto realizzabile?

Mirella Leone

 

Mirella Leone

Già docente di filosofia all’Università di Verona, sudiosa di filosofia classica e di storia, fa parte dell’Archivio per la scrittura e la memoria delle donne presso l’Archivio di stato di Firenze, dell’AICC (Associazione italiana cultura classica), del CLE (Centrum latinitatis Europae) e di prestigiose associazioni culturali veronesi. Ha pubblicato un libro di storia e memorie familiari (“Le radici e la chioma”, Bonaccorso 2012) ed una ricerca storica sulla prima studentessa liceale italiana (“Da studentessa a professoressa, una donna dell’Ottocento alla ricerca della professione”, Bonaccorso 2015) che ha vinto il 1° premio della XVII edizione de ”Il paese delle donne” sez saggistica.

                          

 

TRA IL GROTTESCO E IL SUBLIME: ALEJANDRO JODOROWSKY UMANISTA RIBELLE

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Il percorso artistico di Alejandro Jodorowsky viene generalmente considerato in via quasi esclusiva dal punto di vista della sua produzione filmica.

In effetti, questo poliedrico, carismatico e assolutamente eccentrico regista e scrittore cileno, nostro contemporaneo, è approdato alla notorietà nell’ambito del cinema underground.

Si tratta di opere nelle quali, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, Jodorowsky ha messo a frutto la sua esperienza giovanile di mimo e attore, culminata nel movimento del Teatro Panico, del quale è stato co-fondatore. Infatti, proprio le caratteristiche di questo movimento, insieme a quelle del Teatro della Crudeltà, al quale pure egli fa riferimento, hanno costituito gli elementi di principale ispirazione dei suoi film più noti, quali “El Topo”, “La Montagna Sacra”, “ Santa sangre”.

Si tratta di opere caratterizzate da terrore, sadismo e umorismo blasfemo, mescolati all’imprevedibile, all’insolito e al grottesco, rivedendo il tutto attraverso i filtri del surrealismo, del misticismo e della controcultura dell’epoca. Ritroviamo esperienze e conoscenze del tutto eterogenee — dalla fantascienza allo sciamanesimo, passando per lo script fumettistico e le ispirazioni anarchiche proto-punk – in un caleidoscopio di stimoli che risulta determinante nella costruzione del “personaggio” Jodorowsky, come artista di culto un po’ di nicchia, ma soprattutto come fucina di esperienze della sua nascente poetica anarchico–umanista.

Infatti, la libertà del pensiero asservita esclusivamente alla centralità della fantasia saranno le caratteristiche dominanti di tutta l’esperienza artistica di questo grande maestro contemporaneo, il cui tema di ricerca, dalla fine degli anni Settanta a oggi, sarà quello della esperienza umana come “artistica in sé”, alla scoperta della storia di ciascuno come storia famigliare, generazionale e sociale, ma soprattutto come avventura individuale oltre le catene famigliari e i condizionamenti della politica e della religione, ridefinite come valori relativi, subordinati alla autorealizzazione del sé quale supremo gesto sia estetico che morale.

La vera missione dell’individuo, nella poetica di Jodorowsky, sta nella ricerca della propria storia e del proprio destino: un percorso per ciascun essere umano, unico e irripetibile, in una dimensione sincretica nella quale si fondono le profondità di tutte le religioni e di tutte le filosofie, anche esoteriche, con le intuizioni della psicoanalisi e del gioco simbolico, senza perdere il senso dell’irripetibile, del tragico, del comico e del surreale.

In quest’ottica, negli ultimi decenni Jodorowsky, da regista, si è evoluto in ricercatore del profondo, con una produzione letteraria eclettica, nella quale ritroviamo il portato di studi, apparentemente lontanissimi, sui temi del simbolo (importanti i testi dedicati alla storia, funzione e significato dei tarocchi), delle religioni (ai Vangeli, nello specifico, dedica uno scritto qualificandoli come strumento di guarigione spirituale) e della famiglia.

Il presupposto di questa produzione letteraria (in parte anche biografica, come il libro “La danza della realtà”) è che, per usare una frase del Buddha, “Niente è come sembra” e, poiché “tutto insegna”, l’approccio alla conoscenza, come dimensione del sé unitaria ed armoniosa, deve essere coraggioso e ribelle. Dobbiamo accostarci alla vita senza preconcetti né pregiudizi. In questo ci deve essere di aiuto l’arte: a sviluppare la coscienza e la conoscenza e quindi a tenere aperte le porte della percezione.

Jodoroswky, infatti, fa propri questi versi di William Blake: “Se le porte della percezione fossero pulite, ogni cosa apparirebbe all’uomo com’è, infinita. Poiché l’uomo si è così rinchiuso che vede tutto attraverso le anguste fenditure della sua caverna.”.

Va sottolineato che, nonostante la portata universale del suo messaggio, questo autore non ha mai tradito la propria formazione anarchica e dissacrante: non si è mai posto come un illuminato o un “guru”, tanto è vero che, interpellato sulla sua missione artistica, in modo provocatorio e divertente si è autodefinito un “sacro imbroglione” proprio perché: “vero è ciò che è utile”.

Rompere i vincoli con il passato (in particolare con la famiglia, “tesoro e trappola” al tempo stesso, come sottotitola il suo libro dedicato alla “Metagenealogia) per arrivare a porsi in modo totalmente aperto alla percezione della meraviglia della vita: questo è l’insegnamento artistico di Jodorowsky che, nella seconda parte della sua esperienza, arriva ad affermare che l’arte è tale “… solo se cura”: altrimenti non è.

In questo senso è facile comprendere la affermazione dell’artista che sinteticamente dice di sè: “La profonda storia della mia vita è quella di un impegno costante per espandere l’ immaginazione”.

Il tutto è sintetizzato in modo sublime nella sua poesia:

POR OSMAR

Mi piace sviluppare la mia coscienza per capire perchè sono vivo,
cos’è il mio corpo e cosa devo fare per cooperare con i disegni dell’universo.
Non mi piace la gente che accumula informazioni inutili e si crea false forme di condotta, plagiata da personalità importanti.
Mi piace rispettare gli altri, non per via delle deviazioni narcisistiche della loro personalità, ma per come si sono evolute interiormente.
Non mi piace la gente la cui mente non sa riposare in silenzio,
il cui cuore critica gli altri senza sosta,
la cui sessualità vive insoddisfatta,
il cui corpo s’intossica senza saper apprezzare di essere vivo.
Ogni secondo di vita è un regalo sublime.
Mi piace invecchiare perchè il tempo dissolve il superfluo e conserva l’essenziale.
Non mi piace la gente che per retaggi infantili trasforma le bugie in superstizioni.
Non mi piace che ci sia un papa che predica senza condividere la sua anima con una “papessa”.
Non mi piace che la religione sia nelle mani di uomini che disprezzano le donne.
Mi piace collaborare e non competere.
Mi piace scoprire in ogni essere quella gioia eterna che potremmo chiamare dio interiore.
Non mi piace l’arte che serve solo a celebrare il suo esecutore.
Mi piace l’arte che serve per guarire.
Non mi piacciono le persone troppo stupide.
Mi piace tutto ciò che provoca il riso.
Mi piace affrontare, volontariamente, la mia sofferenza, con l’obiettivo di espandere la mia coscienza.
Alejandro Jodorowsky

Alejandro Jodorowsky attualmente vive a Vincennes, vicino a Parigi; scrive e tiene ancora seminari e conferenze sulle materie che lo hanno impegnato negli ultimi decenni, in particolare sulla simbologia dei Tarocchi e su discipline da lui stesso inventate, quali la Psicomagia e la Psicogenealogia.

Beatrice Pinotti

Beatrice Pinotti

Laureata in legge è studiosa di simbologia sacra. Vive a Mantova.

 

                                                                      IL SOGNO E I SOGNI NEL MONDO CLASSICO

Il sogno scaturisce dal fondo mitico della mente, dà vita alle immagini dei sogni, muove le figure del “gran teatro” dell’anima. E’ il filo che permette di inoltrarsi nel labirinto di un percorso terapeutico in cui, a partire dal “romanzo famigliare”, ci si avvia a oltrepassarlo, sino a cogliere l’intreccio che lega la vita personale a quella più profonda dell’anima, radicata nei suoi fondamenti archetipici.

Nella letteratura occidentale Omero è il primo autore che ci parli di sogni. I sogni in Omero possono essere indotti da Dei o da defunti, possono essere veritieri ed alludere a qualcosa che deve accadere o fallaci ed ingannatori; possono essere funesti ed indurre chi sogna a desistere da un’ impresa o essere benevoli e di sostegno a chi li fa. Per esempio, il sogno delle oche e dell’aquila (Odissea XIX 535 ss) che profetizza la vendetta di Odisseo nei confronti dei Proci. Proprio in questo ultimo passo, Penelope spiega che cosa siano i sogni:

Ospite, i sogni sono vani, inspiegabili:

non tutti si avverano, purtroppo, per gli uomini.

Due son le porte dei sogni inconsistenti:

una ha battenti di corno, l’altra d’avorio:

quelli che vengono fuori dal candido avorio,

avvolgon d’inganni la mente, parole vane portando;

quelli invece che escon fuori dal lucido corno,

verità li incorona, se un mortale li vede.

(Omero, Odissea, XIX, 560-567, trad. Rosa Calzecchi Onesti)

Nell’antichità il sogno era considerato fonte di verità superiori ed era interpretato per trarne presagi. Un autore che ricorre spesso all’espediente onirico è Eschilo. Per coinvolgere lo spettatore e catalizzare la sua attenzione sugli eventi in scena, creò soluzioni drammatiche. Tra le varie tecniche ricordiamo: Il sogno – presagio (nei “Persiani” e nel “Prometeo”). Prometeo: il sogno visita Io (sfortunata eroina). Zeus, innamoratosi della ragazza, le invia ambigue visioni notturne che la turbano. I sogni, come messaggeri, la invitano ad uscire dalla sua stanza per raggiungere Zeus negli aperti pascoli, ma il contatto con Zeus porterà la ragazza alla rovina, poiché sarà trasformata da Era in giovenca e condannata a vagare per tutta la terra. Il sogno mostra una forza premonitrice: i pascoli e le praterie dove si fermerà la ragazza, preparano lo spettatore alla metamorfosi della giovane in bestia-donna. Persiani: al palazzo di Serse, in un’atmosfera di angoscia, la regina Atossa narra ai Fidi il suo sogno: due donne, una persiana e l’altra greca, si affrontano. Serse cerca di domarle e sottoporle al giogo del suo carro, come cavalle da traino. Mentre la persiana si sottomette, l’altra si ribella (si libera dal morso delle briglie e rovescia il carro). Il sogno si conclude con l’apparizione del re Dario (padre di Serse) in lacrime, davanti al quale Serse si strappa le vesti. Simboli: le due donne rappresentano la Persia (docile e sottomessa a Serse) e la Grecia (fiera e indipendente). La scena finale del sogno rappresenta un’aquila (la Persia) aggredita da un falcone (Grecia) che le infligge un duro supplizio, e simboleggia il massacro della flotta di Serse per mezzo degli artigli (rostri) e delle fiocine.

Nelle Coefore: Appare il fantasma di Clitennestra, che aizza le Erinni, addormentate, a perseguitare il figlio per il suo orribile delitto, lamentandosi del fatto che nessun altro dio si levi in sua difesa. Le Erinni si accingono, lamentandosi in sogno, a dare la caccia ad Oreste. Parodo (vv. 143-178):

Dormite? E che bisogno ho io / di sonnacchiose? Perché m’offendete / cosí?

Nel V libro della Repubblica, proprio nel cuore della discussione sulla città ideale, Platone fornisce per bocca di Socrate una spiegazione apparentemente semplice di ciò che dovrebbe intendersi con l’espressione «sognare» o «fare sogni» (oneriòttein): scambiare per uguali cose che non sono uguali, ma soltanto simili. Sognare è muoversi in un universo di certezze supposte tali. È un sognare rispetto al quale l’opinione sensibile non è qualche cosa da scartare ma una sorta di anticamera, un percorso obbligato che conduce alla scienza e alla conoscenza in senso proprio. Gnòme ed Epistème non implicano il rifiuto delle percezioni, bensì la capacità di ritrovare in esse le idee. Coerentemente con questo quadro, il filosofo non è colui che rinuncia al sogno e allo spettacolo del mondo, ma chi trasforma ogni spettacolo, e perfino l’intrattenimento, in una nuova occasione per ricercare la verità.

In passato – spiega Socrate nel “Fedone” ai suoi interlocutori – accoglievo questo sogno come se mi facesse da sprone e da incoraggiamento a fare ciò che facevo, in modo simile a chi incita i corridori, cosi io ritenevo che anche il sogno mi incitasse a ciò, a comporre musica, perché la filosofia è la musica più nobile, ed io questo facevo. Sempre nel “Fedone”, Cebete domanda a Socrate per quale motivo da quando è in carcere si sia messo a comporre, quando prima non lo aveva mai fatto. La risposta del filosofo è: Volevo mettere alla prova certi miei sogni, per sperimentare che cosa dicessero. Il sogno non richiede alla veglia tanto di essere interpretato, quanto piuttosto di essere messo alla prova.

Nel “Carmide”, Socrate presenta nella veste di un sogno l’idea di un mondo in cui la scienza regni sovrana e la temperanza possa orientare i suoi sforzi in direzione del bene. E anche l’intera costruzione della “Repubblica” ci viene presentata alla stregua di un grande affresco onirico. Il filosofo mette in campo un suo sogno di razionalità che entra in dialettica con le concezioni del senso comune

Nel “Timeo”, Platone spiega agli allievi come gli dei introducono negli occhi dell’uomo le immagini dei sogni durante la notte: Dunque, quando attorno alla corrente degli occhi c’è la luce del giorno, il simile si getta sul simile, e diventa suo congiunto, si colloca nel corpo come a casa propria dritto nella direzione degli occhi, dove, viceversa, ciò che viene da dentro, andando incontro a ciò che viene da fuori, ad esso si congiunge… (…)… . Ma quando sopraggiunge la notte, il fuoco congenito si separa, si trasforma rispetto al suo dissimile esteriore, si altera e si spegne, non essendo più unito all’aria circostante, non ha fuoco. Smette di vedere, ed allora diventa un attrattore del sonno. Gli dei hanno escogitato la natura delle palpebre a salvaguardia dell’occhio. Quando lo racchiude in sé, imprigiona la forza del fuoco che c’è dentro, la quale forza dissolve e rende uniformi i movimenti interni e, una volta che questi sono appianati, giunge la quiete, e quando c’è molta quiete, si verifica un sonno con brevi sogni, quando invece restano dei movimenti più grandi, a seconda dei luoghi in cui permangono, ci passano sopra tante e tali immagini, che dentro si rendono simili a quelle esterne e che vengono ricordate una volta svegli (Timeo 45-46)

Angiolina Martucci Lanza

 

Angiolina Martucci Lanza

Ex docente di lettere è organizzatrice di eventi culturali.