“MORTE DI UN COMMESSO VIAGGIATORE “ DEL TEATRO DELL’ELFO AL NUOVO DI VERONA. RECENSIONE.

commesso_3Morte di un commesso viaggiatore”, prodotto dal teatro dell’Elfo per la regia di Elio De Capitani (che ne è anche il principale interprete nel ruolo di Willy Loman) è la proposta (fino al 26 febbraio nella sala del Nuovo) del Grande Teatro, la rassegna di prosa organizzata dal Comune di Verona con il Teatro Stabile del Veneto.

Testo considerato il capolavoro del drammaturgo statunitense Arthur Miller, scomparso poco più di una decina d’anni fa, nel 2005, l’opera fece molto scalpore negli anni ’50, tanto da divenire un cult dell’epoca. Cruda messa in scena del fallimento del mitico “sogno americano” che si consuma, tra mutui e rate da pagare, tra incomprensioni generazionali e problemi di insicurezza economica e lavorativa, all’interno di una tipica famiglia americana, a distanza di oltre mezzo secolo, il dramma, nonostante l’innegabile, ahimè, attualità delle problematiche trattate, ci è sembrato alquanto datato, prolisso e ripetitivo. Un intervento mirato ad asciugare, almeno in parte, la struttura drammaturgica forse avrebbe giovato a una maggiore incisività. Sorge addirittura il dubbio che, al successo del “Commesso”, abbia contribuito in misura non trascurabile l’anticonformistico messaggio di smitizzante “antiamericanità” che, all’epoca, ebbe un’eco persino nella Cina di Mao. Il “povero” Loman, rate e mutui tutti pagati, soccombe quando, dopo tante bugie raccontate a se stesso e in famiglia, deve arrendersi alla consapevolezza che né lui (ormai non più) né i figli invereranno l’agognato sogno di affermarsi quali “numero uno”.commesso_1_ph_LailaPozzo

La regia, che assume un ritmo sempre più concitato, al limite del parossismo nel finale, ripropone integralmente l’opera nella storica traduzione di Masolino d’Amico e con occhio cinematografico, come in una lunga sequenza con tanto di flash back (ora memorie, ora elucubrazioni mentali), importanti giochi di luce (di Michele Ceglia) spesso di gusto surreale e persino un po’ inquietanti. Ci sono cambi a vista e voci fuori campo. Le scene (di Carlo Sala, come i costumi anni ’50) sono mobili, liberamente allusive ai vari luoghi, sempre claustrofobiche. La recitazione va dai toni minimalisti di una umanissima Cristina Crippa (Linda Loman) a quelli estroversi e urlati di Elio De Capitani (Willy Loman), ulteriormente enfatizzati dall’uso dei microfoni applicati anche al resto della compagnia, passando per la fisicità iperrealisticamente esibita e, secondo noi, persino pleonasticamente ostentata, dei figli Biff (Angelo Di Genio) e Happy (Marco Bonadei) e delle caricaturali, sciocchine e sguaiate, restanti componenti del comparto femminile (Roberta Lanave, Marta Pizzigallo). Tutti, comunque bravissimi e impegnatissimi, con Giancarlo Previati, Gabriele Calindri, Daniele Marmi, Vincenzo Zampa.

Una regia, anch’essa datata, che rimanda ai tempi d’oro dell’Elfo; che furono.

Applausi prolungati e convinti.

Franca Barbuggiani