IL NOME DELLA ROSA DI LEO MUSCATO AL NUOVO DI VERONA

06_IL NOME DELLA ROSA_DSC_6019Il nome della rosa”, primo romanzo del saggista, esperto di comunicazioni di massa, di estetica e di poetiche d’avanguardia, Umberto Eco, che con le sue inchieste sulla cultura di consumo stigmatizzò acutamente i mitici anni ’60 e ’70, fu annoverato nel top della narrativa mondiale del Novecento, trovando, nel 1986, pregevole trasposizione filmica ad opera di Jean Jacques Annaud, protagonista Sean Connery.

Nel 2015, anno della scomparsa dell’Autore, Stefano Massini dette al romanzo versione teatrale, alla quale si rifà l’adattamento firmato da Leo Muscato, alla regia dell’omonimo spettacolo prodotto dal Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Genova e Teatro Stabile del Veneto-Teatro Nazionale, con il sostegno di Fideuram.

In tournée per l’Italia, a Verona ha fatto tappa al Nuovo, dal 13 al 18 febbraio 2018, nell’ambito della rassegna “Il grande teatro”.

Thriller ambientato in epoca medioevale in un monastero benedettino dell’Italia del Nord, dove si scontreranno la lucida razionalità di frate Guglielmo, saggio e sapiente, con l’ignoranza e il pregiudizio dell’inquisitore Bernardo, offre, a un tempo, un acuto spaccato della complessa realtà politico-filosofico-culturale dell’epoca.

La trasposizione drammaturgica è in gran parte narrativa (il vecchio Adso, che nel romanzo ricorda i fatti a cui ha assistito, diviene narratore sulla scena). Affollata di personaggi schizzati più che scolpiti — nella fattispecie caratterizzati da una recitazione abbastanza generica e talora alquanto sciatta; unica eccezione l’autorevole Jorge da Burgos di Bob Marchese, geloso custode cieco di una verità che deve a tutti restare celata — e priva della forza evocativa del romanzo, si sostiene soprattutto grazie alla regia di Leo Muscato, con il pregevole allestimento scenico di Margherita Palli.

La storia, che presenta continue variazioni di spazio e di tempo, si scandisce per quadri, tra proscenio — con video, di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilii, aventi la funzione di enfatizzare i vari stati d’animo del momento – e ambienti più ampi e articolati. Questi, quando non si riferiscono alla spettacolare e monumentale labirintica biblioteca, sono ospitati in una scatola nera astratta, con feritoie attraverso le quali entrano oggetti di scena (spesso cambiati a vista anche dagli stessi attori) e luci. Luci ora naturali, ora antinaturalistiche (talvolta ricordano modi caravaggeschi), ora inquietanti, come si conviene ad un thriller dove morti truculentemente ammazzati e scene di tortura non si risparmiano.

Completano questa suggestiva fantasia gotica le non meno appropriate musiche di Daniele D’Angelo. Il tutto fedelmente veicolando il messaggio che il riso è strumento di conoscenza. E, quindi, di libertà. Positive le accoglienze del pubblico che alla “prima” ha esaurito il teatro.

Franca Barbuggiani