“HAYE: LE PAROLE, LA NOTTE” AL TEATRO ARIOSTO DI REGGIO EMILIA

Una riflessione importante, onesta quella che il compositore Mauro Montalbetti ci ha regalato, in stretta collaborazione con l’autore del libretto Alessandro Leogrande e la regista Alina Marazzi

con il suo nuovo lavoro “Haye: le parole, la notte”, presentato in prima assoluta al Teatro Ariosto di Reggio Emilia in occasione del Festival Aperto.

Il tema attorno al quale il lavoro ruota risulta attualissimo e particolarmente spinoso, soprattutto per la difficoltà ed i modi in cui normalmente viene trattato. Un’esagerata bonomia, condita con una spolverata di ipocrita quanto inutile pietà, si contrappone infatti, spesso, ad una parzialità assoluta di visione a fronte di una realtà che, ormai da troppo tempo, non riguarda più singole comunità ma la multietnica globalità del mondo.

L’immigrazione è argomento sul quale sembrerebbe impossibile discutere con pacatezza, voci si accumulano a voci, toni accesi a toni polemici e spesso alcune esasperazioni razziali sembrano quasi giustificate da una “borghesia” nel comportamento, gesto o azione che, invece di aprire strade per una possibile comunicazione, non fa che costruire muri sempre più alti.

L’altro, il diverso, ciò che non appartiene al nostro nucleo famigliare, al nostro quartiere, alla nostra città, alla nostra nazione diventa un mostro, è sempre stato così, ed i mostri non parlano, perché non esistono.

Intorno a ciò si interroga la nuova opera di Montalbetti dando provocatoriamente la voce a quella stessa realtà che, ogni giorno, incontriamo sulla nostra strada e che ci ostiniamo a non voler vedere.

‘Haye’ nella lingua tigrina, diffusa fra Etiopia ed Eritrea, significa ‘Avanti’, parola d’ordine fondamentale per chiunque sia costretto a lasciare la propria terra alla ricerca di un futuro imperscrutabile quanto indefinito, conscio per questo di rischiare la morte.

Protagonista del dramma è lo spazio, buio e claustrofobico di una stiva di un qualsiasi scafo in una qualsiasi acqua, prigione di qualsiasi persona, la voce di uno scafista (a metà tra personaggio reale o incubo), di sua madre, di una profuga inascoltata (canta infatti con una tinta blues e secondo armonie differenti) ed insieme allo spazio le immagini, immagini di un passato non troppo remoto che parlano insistentemente al presente ed ai presenti.

Grazie a numerose collaborazioni, tra le quali quelle dell’Istituto Luce, numerosi video e fotografie d’archivio s’intrecciano, vivificandolo, al racconto narrato di un naufragio, facendo sfilare immagini di migranti di ieri, di territori un tempo da noi colonizzati, contrapponendole a testimonianze dell’oggi che a quelle si sovrappongono condividendone la stessa sofferenza, ferocemente graffiante.

Simbolo del nostro presente, in questo percorso inscatolato in una gabbia scenica spessa ed opprimente, la figura di un attore ad impersonare la figura di un personaggio politico che, con tono aggressivo, ripete le stesse frasi demagogiche e gli stessi concetti di sempre, che siamo abituati ad ascoltare ormai in ogni tipo di ambiente. Un accento che diventa rumore e che, di per se stesso, vive.

Un’operazione complessa, articolata in dieci scene che si sviluppa attraverso un uso drammaturgico delle sonorità, atte a dare la voce a chi non dovrebbe averne, un’”opera-oratorio”, come la definisce lo stesso autore, che procede per piani paralleli e per scatti temporali e che ha come principale obiettivo quello di coinvolgere il pubblico semplicemente, mostrandogli tracce della nostra storia intrecciate a testimonianze contemporanee, tenendosi ben lontano da qualsiasi giudizio o opinione ma semplicemente mostrando una storia antica e mai risolta.

Per un’ operazione di questa portata era necessaria una forte coesione di intenti ed in questo senso ognuno ha contribuito a realizzare un quadro completo di sinergica e straniante complessità.

Quella immagine filmata che ritrae una mano che con un pennarello traccia la strada che il profugo compie per giungere alla meta, partendo da luoghi un tempo italiani (Etiopia, Eritrea) e, in contemporanea a questa, una visione quasi aerea di ciò che resta di quegli sforzi e di quelle fatiche sulla sabbia del deserto raggiungono lo scopo con straordinaria potenza e fanno ciò che il teatro ha smesso di fare ormai da troppo tempo: male.

Impossibile uscire dal teatro Ariosto senza una perplessità, un fastidio, un’ angoscia o qualsiasi altra emozione la questione smuova in ognuno di noi, in quanto “Haye: le parole , la notte” è opera potente e di grande comunicativa che, pur utilizzando mezzi consueti e temi fin troppo noti, li trasmette attraverso una partitura musicale e gestuale che merita indubbiamente di essere comunicata con altre repliche ed in altri teatri del territorio e non solo nazionale.

Un’operazione teatrale, non politica e questa è, dal mio punto di vista, la sua potenza.

Ricordiamo che la pièce, nuova produzione in prima assoluta della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia è stata realizzata grazie alla collaborazione produttiva con IED Milano e in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà del Centro Interculturale Mondinsieme del Comune di Reggio Emilia, la Cooperativa Dimora d’Abramo di Reggio Emilia, il Progetto multidisciplinare MigrAntenate di Florano Modenese e la Compagnia Teatro dell’Orsa di Reggio Emilia.

Nella scena si muovevano mirabilmente Cristina Zavalloni nel ruolo di Yasmina, Gabriele Mari nel ruolo di suo figlio lo scafista Karim, la bravissima ed intensa Elizangela Torricelli che, attraverso una linea melodica semplice ed empatica, diventa l’anima di ogni migrante e l’attore Alessandro Albertin nel ruolo del politico.

Ottimo l’ensemble strumentale diviso in tre piani sonori anche scenicamente distinti: il quartetto d’archi (Quartetto Mirus) visibile tramite una ripresa video ad un lato del palcoscenico, un complesso vocale di otto voci in scena (Zero Vocal Ensemble) e, in buca, l’ottetto dell’Ensemble strumentale della Fondazione I Teatri, uniti in un’unica e cupa onda sonora, continua ed assillante, dal M° Francesco Bossaglia.

Teatro, se non gremito, sostanzialmente pieno di un pubblico eterogeneo che ha seguito in silenzio l’ora e mezza senza intervallo dello spettacolo, tributando un pieno successo al termine a tutto lo staff artistico.

Reggio Emilia, Teatro Ariosto 01/10/2017

Silvia Campana