I PURITANI AL TEATRO REGIO DI TORINO.

Una regia , specie se portata avanti con giusta ambizione critica e raffinata coerenza, dovrebbe innanzitutto avere una finalità espressiva che la renda immediatamente fruibile ( pur nei suoi molteplici aspetti ) da ogni tipo di pubblico .

Un messaggio , pur raffinato e teatralmente cesellato, che non arrivasse direttamente al cuore dello spettatore ( spesso anche per scuoterlo da un torpore dettato dall’abitudine) avrebbe dunque la stessa efficacia di un fucile caricato a salve , molto fumo o , se si vuole, ‘molto rumore per nulla’ , paragrafando un classico shakespeariano. Non basta infatti prendere un soggetto e stravolgerlo nel suo significato specifico per consegnare alla storia un grande spettacolo teatrale che possa risultare innovativo , illuminante e drammatico ; per tutto ciò è necessaria un’impostazione concettuale sviluppata in simbiosi con la partitura e che non trovi la sua ragion d’essere in una vita propria, seppur intensa e teatralmente efficace.

Tutto ciò non è purtroppo avvenuto per quanto riguarda l’allestimento de ” I Puritani “, coprodotto con il Maggio Musicale Fiorentino e presentato dal Teatro Regio di Torino siglato dalla regia di Fabio Ceresa in collaborazione con la sofisticata e straniante scenografia di Tiziano Santi.

Partendo dalla teoria della relatività di Eistein ed in particolare dal concetto della dilatazione del tempo (i tre mesi effettivi del distacco tra Arturo ed Elvira appaiono tre secoli alla mente della giovane ) Ceresa sviluppa uno psicodramma, poco comprensibile e farragginoso, relegando il libretto ad un mero esercizio di stile e sviluppando una seconda visione del dramma apparantemente con obiettivi in parallelo allo stesso ma, in realtà, teatralmente dominante . Così la sortita di Riccardo (“Ah, per sempre io ti perdei”) appare come una premonizione di ciò che avverrà in scena (con buona pace del buon Carlo Pepoli) creando una sceneggiatura a spirale che, avendo il suo fulcro nella morte (sic!) della protagonista, avvolge tutti gli interpreti in un alone pseudogotico , una sorta di incantesimo che dovrebbe cessare con il sacrificio di colui che ne è stato la causa, dunque Arturo. La mano del vendicatore (Riccardo) infatti verrà bloccata solo dall’intervento del “deus ex machina ” cioè l’amnistia finale .

Nonostante il tutto si snodi con una certa coerenza teatrale e con sapiente gusto e professionalità ( la scena non è quasi mai priva di qualche elemento o movimento che possa rimandare alla chiave interpretativa ) la nuova lettura non convince perchè, oltre a svolgersi su di un piano diametralmente opposto a quello che la partitura richiederebbe, non è sostanziata da una base concettuale tale da giustificarne la nuova chiave interpretativa.

Indubbiamente , e qui siamo d’accordo , la pazzia di Elvira viene risolta convenzionalmente in partitura con il lieto fine mentre concettualmente assume i connotati di una morte, come tutte le forme di pazzia, ma da questo a passare ad una definitiva trasformazione del tutto in un dramma alla Bram Stoker mi è sembrato eccessivo .

La scena è sovraccarica di accenti foschi (il nero è dominante in tutto ed il velo di Elvira diventa un nero sudario di morte) ed inquadrata da un’impianto scenografico molto raffinato in cui una singolare porta cinquecentesca quale quinta fissa ( significative le statue) vede il rinnovarsi di un fondale, che a tratti prende i connotati di una cupola , che tutto sembra risucchiare fino al suo completo disfacimento su di un pavimento (peraltro rumorosissimo sotto le calzature degli artisti) imponente e dominato da quattro lapidi più un catafalco ( la tomba di Elvira ) da far invidia a Tim Burton.

Certo non manca alla ‘pièce’ una fascinazione ben congegnata e coinvolgente ma resta il fatto che la personale chiave registica poco o nulla ha da spartire con la partitura belliniana che vive di atmosfere lievi ed è ben lontana dai toni e dalle atmosfere ‘dark’ suggerite dall’allestimento di Ceresa.

Sicuramente lo sviluppo del tema della fiaba ( bella l’idea di immergere il dramma quasi in un fermo immagine stile “La bella addormentata” ) avrebbe offerto una chiave di lettura più convincente del melodramma mantenendone l’aspetto noir , caratteristico del mondo fiabesco, ma innestandolo in un contesto più romantico e consono al dettato belliniano che da sempre vive di linee melodiche continue e raffinate.

Interessante il cast impegnato in palcoscenico, anche se non perfettamente amalgamato alla lettura orchestrale impostata dal sempre preciso M° Michele Mariotti che, in più di un’occasione, forzava tempi e sonorità a scapito di quelle raffinatezze di fraseggio che Bellini richiederebbe ma, trattandosi di una prova generale, molte cose dovevano forse ancora assestarsi .

Olga Peretyatko, uno dei soprani leggeri indubbiamente più interessanti del momento, tratteggiava un’Elvira sostanzialmente convincente e particolarmente a suo agio nei momenti in cui il dramma prende il sopravvento e le angoscie diventano delirio mentre nei momenti in cui dovrebbe essere la sola vocalità a farla da padrona non sempre riusciva ad uscire da una convenzionalità che , di fatto, non le appartiene. Padrona comunque del personaggio ne tratteggiava i palpiti e ne trasmetteva intensamente la delirante e romantica pazzia, nonostante i pesanti dettami registici, in più di un’occasione, ne vanificassero le significanti.

Dmitry Korchak non è dotato di una vocalità particolarmente accattivante per timbro e colore ma conosce una tecnica robusta che gli consente di affrontare con sostanziale precisione , giusta musicalità e senza infamia e senza lode il temibile ruolo di Arturo e le sue pindariche puntature e di questo dobbiamo accontentarci.

Nicola Alaimo non sembrava particolarmente a suo agio nel ruolo di Riccardo; la vocalità belliniana richiede sempre legati , musicalità e giusto fraseggio ed un timbro impostato sul canto di forza non sembra dunque l’ideale per questo ruolo.

Professionale ma nulla di più anche la prestazione di Nicola Ulivieri quale Giorgio.

Completavano il cast l’ottimo Fabrizio Beggi (Gualtiero), Samantha Korbey (Enrichetta) e Saverio Fiore (Sir Bruno).

Come già accennato, disciplinata e mordente la direzione impostata dal M° Michele Mariotti che è sembrata più in inea con la lettura registica che non con le giuste esigenze dei cantanti ma , si sa, la generale a volte può giocare brutti scherzi .

Teatro affollato ed applausi al termine dello spettacolo a tutti gli interpreti ed al Direttore.

Torino, 12/04/2015

SILVIA CAMPANA