“LA FABBRICA DEI PRETI” DI GIULIANA MUSSO AL FORTE SANTA CATERINA DI VERONA. RECENSIONE.

Grande mattatrice e padrona del palcoscenico, di fronte ad una platea gremita, Giuliana Musso con lo spettacolo “La fabbrica dei preti”, in scena il 1 agosto 2014 a Operaforte nel Forte Santa Caterina di Verona, ha ripercorso la storia della Chiesa, centrando la sua indagine sugli anni ’60, gli anni della svolta culturale, che se in modo più ampio hanno trasformato radicalmente i costumi sociali, hanno anche gettato le basi per cambiamenti radicali ecclesiastici istituzionali, a partire dal Concilio di Giovanni XXIII e dal suo nuovo porsi in pubblico: cambiamenti di princìpi ed allargamento di orizzonti pochi anni prima impensabili, non sempre digeriti all’interno della Chiesa stessa.

La messa in scena di e con Giuliana Musso, per le ricerche fotografiche di Tiziana De Mario,la realizzazione video di Giovanni Panozzo e Gigi Zilli, le ricerche bibliografiche di Francesca Del Mestre, la consulenza musicale di Riccardo Tordoni, le canzoni e le musiche di Giovanni Panozzo, Daniele Silvestri, Marcello Serli, Mario D’Azzo e Tiromancino, è una produzione La Corte Ospitale ed è ispirato al racconto “ La Fabriche dai Predis” di Don Bellina.

Lo spettacolo ci parla della gioventù ingannata, sacrificata negli anni più belli della giovinezza in nome di un destino di “più alti” compiti, attraverso la voce di tutti quei seminaristi diventati preti proprio nel ’65, anno emblematico e spartiacque, a segnare la frattura tra il vecchio e l’affacciarsi del nuovo, laddove le contraddizioni emergono con maggior chiarezza; seminaristi che una volta preti si trovano impreparati ad affrontare un mondo sconosciuto e di fronte al quale i princìpi con i quali sono stati educati vanno in frantumi, lasciando l’eco di un vuoto esistenziale incolmabile.

Ci parla anche della durezza della loro educazione, della lancinante rinuncia a se stessi, alla propria identità, affettività, sessualità, individualità, della prepotente estromissione dalla propria famiglia e cerchia affettiva, dell’appiattimento più brutale delle proprie esigenze di crescita e di scoperta, semplici numeri all’interno di un ingranaggio fatto di regole ed orari, obbedienza e punizioni proprio nel momento adolescenziale quando è più prepotente la voglia di vivere e di allegrezza: un mondo chiuso in se stesso paragonabile solo alla vita di caserma.

Cita la presentazione:

La dimensione umana dei sacerdoti è un piccolo tabù sul quale vale la pena di alzare il velo per rimettere l’essere umano e i suoi bisogni al centro o, meglio, al di sopra di ogni norma e ogni dottrina. I seminari di qualche decennio fa hanno operato per dissociare il mondo affettivo dei piccoli futuri preti dalla loro dimensione spirituale e devozionale. Molti di quei piccoli preti hanno trascorso la vita cercando coraggiosamente uno spazio in cui ciò che era stato separato e represso durante la loro formazione si potesse riunire e liberare. A questi preti innamorati della vita ci piacerebbe dare voce e ritrovare insieme a loro la nostra stessa battaglia per “tenere insieme i pezzi”.

Interessanti e profonde le considerazioni che l’attrice fa nell’affrontare queste pagine oscure, alcune delle quali lette quali documento: elenchi interminabili di orari, proibizioni ed obblighi, altre ripercorse nella voce e nel corpo dei protagonisti, testimonianze qui riscattate nella propria intima individualità di conflitti, scelte posteriori, rimpianti e rinunce, mentre sullo sfondo scorrono foto d’epoca commentate da suggestive canzoni, nell’intenzione implicita e manifesta di un grande e commosso abbraccio, ricco di comprensione ( nell’accezione “prendere con sè”) verso tutte quelle che sembrano essere state vittime inconsapevoli dell’ingranaggio di un sistema: la fabbrica dei preti.

Giuliana Musso, grande interprete, attraversa ogni singola vita dei propri personaggi con verità, senza utilizzo di maschere, trucco e costumi, ma ricostruendone l’identità con la voce, la postura, l’inflessione della parlata tipica regionale ( bella alternativa al dialetto), fino a trasformarsi completamente fondendosi con i personaggi evocati, dalla mimica facciale ad un credibile cambio d’età e giocando con il pubblico, in una sorta di dialogo/ confessione aperta, sincera quanto lo può essere quella di uomini giunti alla fine della propria esistenza, che non hanno più peli sulla lingua perchè non hanno più nulla da perdere.

Nello spettacolo ci sono tutti gli ingredienti: la consapevolezza del dramma, l’ironia che a volte si trasforma in intelligente comicità, lo sguardo al passato lontano nel rintracciare le origini dei silenzi colpevoli di certe aree geografiche, abituate ad essere controllate e rispetto alle quali ogni atto di insubordinazione diventa a tutt’oggi tabù e un tentativo di ponte aperto verso il futuro, insito in ogni ricerca storica che si interroghi sul divenire.

In tutta la drammaturgia si respira grande rispetto per le scelte individuali: non è in gioco questo o quel credo, ma la mutilazione innaturale compiuta sull’individuo in nome di questo o quel credo.

Uno spettacolo completo, che, aldilà della eccezionale bravura dell’interprete, capace di tenere il palcoscenico per quasi due ore, tanto concentrata nella sua parte quanto empaticamente interattiva con il pubblico, ha il grande merito di porsi in chiave dialettica con gli spettatori offrendo più livelli di lettura seppur all’interno di un’identica chiave: uno spettacolo a strati di complessità in cui ciascuno prende secondo bisogno. Davvero raro in questi tempi in cui la tendenza è spesso , aldilà della giustezza delle proprie riflessioni e della pregnanza dei contenuti, quella di imporre il proprio pensiero, magari attraverso la seduzione ammiccante o la battuta facile -battute che anche qui non mancano ma che non sono messe per “risolvere”, piuttosto per aggiungere pesi in modo leggero.

Lo spettacolo cioè ha saputo far intercorrere quella giusta distanza mentale tra palcoscenico e spettatore, che invita alla riflessione piuttosto che all’istintiva ed emotiva adesione.

Lunghi meritati applausi.

Emanuela Dal Pozzo